Da un vecchio film di Moretti, una domanda venne molto citata anche da chi non si distingueva molto da colei cuil’attore la rivolgeva, una giornalista clonata e imbecille (specie non rara, e rigorosamente bisex): “ma come parli?” In Roma di Fellini, una paciosa bellona in trattoria citava una frase portatrice di una saggezza molto più antica: “come che magni, cachi”.
Potremmo allargare e dire che c’è un rapporto diretto tra ciò che si mangia e come si parla. Ma il mangiare è anche una metafora: se ci nutriamo, per esempio, di linguaggio televisivo, non possiamo che riproporlo, giorno per giorno, nella nostra quotidianità, e poi “espellerlo”, però non “liberandocene” e invece inquinando l’ambiente – i bambini, per esempio, in quel gioco ignobile di corruzione dei nuovi nati di cui gli adulti di oggi criminalmente si compiacciono. Vorrei segnalare un aureo librino, piuttosto un articolo lungo presentato come libro (otto euro sono troppe per il numero di battute ma non per la qualità del testo, e del prezzo è responsabile l’editore e non l’autore), Sulla lingua del tempo presente (Einaudi). Lo ha scritto Gustavo Zagrebelsky, che fa il giudice e non il linguista, ed è forse è da questo che il saggio deriva la sua pregnanza. Vi si discute la lingua di oggi e proprio di oggi, le sue compiacenze, le sue reiterazioni, la sua bruttezza rivelatrice.
Dice infatti l’autore che “nella lingua del nostro tempo si nota la presenza sovrabbondante del lessico di Berlusconi, dei suoi uomini, e dei loro mezzi di comunicazione di massa, che parlano come lui”. Un’interpretazione di questa presenza, in verità ossessiva e che si è inserita senza nessuno sforzo anche nel lessico della sinistra e in generale della stragrande maggioranza degli italiani, dice che “l’uniformità della lingua, l’assenza di parole nuove, l’ossessiva concentrazione su parole vecchie e la continua ripetizione, sintomi di demenza senile, sono tali certo da produrre noia, distacco, ironia e pena ma – cosa molto più grave – sono il segno di malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio stereotipato e kitsch, proprio per questo largamente diffuso e bene accolto”.
Insomma, Berlusconi e la sua lingua hanno infettato la politica italiana (una constatazione: alla Camera e al Senato non sono mai state così rari “i rappresentanti del popolo” di cui fidarci) e la società tutta. Gli anticorpi sono debolissimi, e compito delle persone perbene sarebbe quello di rafforzarli, anche dando alle parole il loro giusto peso e valore.
Sono molti i nuovi luoghi comuni berlusconiani passati nella lingua di tutti che Zagrebelsky analizza: “scendere” in politica, “contratto”,”amore”, “doni”, “mantenuti”, “italiani” (con un uso che rivela come non tutti godano dello stesso livello di cittadinanza…), “Prima Repubblica”, “assolutamente”, “fare-lavorare-decidere”, “le tasche degli Italiani”… La sua scelta non è casuale, e risulta soprattutto politica. Con molto pudore, Zagrebelsky ci indica quel che le parole nascondono e i pericoli non retorici che vi si annidano.
Di essi noto quello che mi pare centrale, il pericolo della lingua unica, che si diparte dai “portavoce” del potere e si comunica, senza trovare resistenza alla quasi totalità dei professionisti dei media – giornali, tv, radio, senza dimenticare i più astuti ed efferati di tutti, i pubblicitari. A suo tempo Orwell analizzò tutto questo magistralmente in 1984 (la “neo-lingua”), e da allora le cose, da questo punto di vista, non sono migliorate, anche se non si parla più di subdole manovre e imposizioni dittatoriali ma di imposizioni “democratiche” non meno subdole. Zagrebelsky non insiste, per carità di patria, nella constatazione di come la lingua del potere pervada anche la sinistra (perché interna allo stesso sistema di potere?).
L’ultima voce del saggio è “politicamente corretto”: sono “politicamente corretti” “l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità… la semplificazione e banalizzazione dei problemi comuni… la rassicurazione a ogni costo, l’occultamento delle difficoltà, le promesse dell’impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù…” “I cittadini sono trattati non come persone consapevoli ma come plebe…” ed è dal linguaggio plebeo diventato “politicamente corretto” che dobbiamo tutti liberarci,“ritrovando l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente, adeguatamente ai fatti”.
Teniamone conto. Tenetene conto, politici e giornalisti del poco di sinistra che resta, se credete davvero alla sua diversità dalla destra e se volete che cresca.
Goffredo Fofi l’Unità 5 dicembre 2010
vedi: Le parole rubate alla democrazia
SULLA LINGUA DEL TEMPO PRESENTE