C’è chi propone di superare la rappresentanza politica ma la democrazia diretta è solo un’illusione. Soprattutto se si pretende di fondarla su internet e i social network.

Ci sarà un motivo se proprio i populisti, che tanti accusano di indebolire la democrazia, si presentano agli elettori promettendo invece una democrazia più forte, una democrazia «diretta», l’entrata dei cittadini nelle dinamiche decisionali senza più alcuna delega ai rappresentanti parlamentari. Ci sarà un motivo se Frauke Petry l’ha indicata tra le priorità di Alternative für Deutschland, se il Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip) si è affidato a un referendum per ottenere la Brexit, se Geert Wilders ha inserito al terzo punto del suo programma l’introduzione di consultazioni popolari vincolanti, se in Italia, per venire a noi, è stato istituito per la prima volta nella storia un ministero alla Democrazia diretta e Beppe Grillo e Davide Casaleggio parlano addirittura di un progressivo superamento della funzione del Parlamento.

Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)

A ben guardare non è un paradosso. Sia perché democrazia diretta non vuol dire necessariamente una democrazia migliore, ma secondo molti è un passo verso il totalitarismo. Sia perché i partiti populisti devono una parte del loro successo al mondo volatile dei social network e in quello stesso mondo sta una spiegazione di questa rinnovata passione per la democrazia diretta: se sei nato e cresciuto in una società in cui puoi dire sempre la tua su Twitter, Facebook e Instagram, fai un po’ fatica a immaginare un sistema in cui qualcun altro decide per te, magari senza un vincolo di mandato, completamente di testa sua. Lo spiega chiaramente Yascha Mounk nel suo Popolo vs Democrazia, pubblicato di recente da Feltrinelli: «Forse i cittadini non vogliono nemmeno che la loro influenza sul sistema di governo sia immediata, ma hanno comunque un modello chiarissimo di cosa significa avere un impatto reale e diretto».

Questi cittadini dell’era populista, che non accettano più l’intermediazione né dei partiti né dei rappresentanti parlamentari eletti, spingono verso il mito dell’Atene periclea, nella quale era un’assemblea popolare aperta a tutti ad approvare le leggi. Norberto Bobbio nel Futuro della democrazia (Einaudi, 1984) spiegava che esisteva un limite invalicabile al passaggio di scala dai seimila in assemblea nella Polis alle decine di milioni che dovrebbero decidere oggi: «Nessuno — scriveva — può immaginare uno Stato che possa essere governato attraverso il continuo appello al popolo (…). Salvo nell’ipotesi per ora fantascientifica che ogni cittadino possa trasmettere il proprio voto a un cervello elettronico standosene comodamente a casa e schiacciando un bottone».

Ora che quell’ipotesi fantascientifica si è realizzata, che cosa succede? Succede che la fiducia nella democrazia rappresentativa si è ridotta ai minimi termini. Come ha da poco spiegato Giovanni Orsina ne La democrazia del narcisismo (Marsilio, 2018), questa forma di Stato ha fatto una promessa troppo impegnativa, la promessa della felicità, e non è riuscita a mantenerla.

L’efficienza dei governi si è ridotta, le trattative che preludono alla formazione delle maggioranze sono diventate lunghe ed estenuanti (in Olanda, su nove crisi che nel dopoguerra hanno superato gli ottanta giorni, cinque si sono registrate dopo il 1994), l’astensionismo è cresciuto (in Europa si è passati dall’85 per cento dei votanti degli anni Sessanta al 77 per cento del primo decennio del 2000), la volatilità dei consensi è salita alle stelle, le forze politiche dei governi uscenti vengono penalizzate con perdite di molto maggiori rispetto al passato (in Paesi come la Finlandia, l’Olanda e l’Irlanda ora il crollo è compreso tra l’11 e il 27 per cento, negli anni Settanta si aggirava intorno al 2). In definitiva la promessa di felicità si è scontrata soprattutto con la crisi economica.

I Paesi non democratici,testimonia la rivista «Foreign Affairs», occupano quote sempre maggiori del Pil mondiale, sono passati dal 12 per cento del 1990 al 33 per cento di oggi e si prevede che toccheranno il 50 tra cinque anni. Tutto questo fenomeno è stato chiamato «sindrome di stanchezza democratica» dall’intellettuale belga David van Reybrouck. E il suo libro (Contro le elezioni, Feltrinelli, 2015) andrebbe riletto oggi non solo perché negli ultimi tempi era molto consigliato da Gianroberto Casaleggio, ma anche perché è citato spesso dal nostro ministro Riccardo Fraccaro.

Ma che cosa è precisamente la Democrazia diretta? Come intendono realizzarla i Cinque Stelle? E può davvero funzionare?

Jean-Jacques Rousseau, cui non a caso è intitolata la piattaforma dei Cinque Stelle, fu tra i primi a sollevare il problema della partecipazione nel Contratto sociale, avvisando che «il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso: lo è soltanto durante l’elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti, esso torna schiavo, non è più niente». La democrazia rappresentativa, fondata sul principio della divisione del lavoro, secondo cui i cittadini eleggono dei rappresentanti e affidano a loro il compito di occuparsi delle leggi, mostrava già allora tutte le sue contraddizioni. Lo stesso Rousseau avvertiva però che «una vera democrazia diretta non è mai esistita né mai esisterà», innanzitutto per il problema delle dimensioni degli Stati.

Tra i due poli della democrazia rappresentativa e della democrazia diretta, però, esistono varie sfumature. In mezzo c’è una democrazia che Norberto Bobbio definiva «integrale» e che Fraccaro ha detto di voler perseguire, che contiene elementi dell’una e dell’altra forma considerando «entrambe necessarie, ma non di per sé sufficienti».

Prendiamo il caso del vincolo di mandato, oggi vietato dalla nostra Costituzione, che i Cinque Stelle hanno inserito tra le priorità del contratto di governo (sia pure in un senso più mirato a evitare il passaggio da un partito all’altro): prevede che i parlamentari si debbano attenere rigorosamente al programma, altrimenti vengono revocati. Mantiene il concetto di rappresentanza, ma attribuisce un peso maggiore alla volontà popolare anche oltre il momento del voto. È dunque un istituto di «democrazia integrale». Il problema è che lo si ritrova di solito nei sistemi autocratici. E mette in pericolo la democrazia per un semplice motivo: rende i parlamentari controllabili, non liberi di agire nell’interesse generale.

L’altra strada per un sistema di democrazia integrale è quella del rafforzamento dell’istituto referendario e delle leggi di iniziativa popolare. Anche questi due elementi sono scritti nel contratto di governo: eliminazione del quorum per il referendum, introduzione del referendum propositivo, obbligo per il Parlamento di discutere entro determinati termini temporali delle proposte di legge di iniziativa popolare. In questo caso le proposte dei Cinque Stelle non sembrano rischiose: si tratta di migliorare l’efficienza di strumenti della democrazia diretta che già esistono nel nostro ordinamento e che potrebbero portare senza dubbio a una maggiore partecipazione dei cittadini, senza tuttavia arrivare all’assurdo del «cittadino totale» di Ralf Dahrendorf, chiamato a prendere decisioni pubbliche in ogni momento della sua vita, altra faccia dello Stato totale.

Quella del contratto di governo, dunque, non è una vera e propria democrazia diretta, ma una via di mezzo tra quella rappresentativa e quella diretta. Nadia Urbinati, parlando più in generale dei Cinque Stelle, la definisce Democrazia in diretta nell’omonimo saggio del 2013 (Feltrinelli), nel senso di «in presa diretta»: un sistema in cui i cittadini non partecipano alla formazione delle leggi, ma fanno sentire la loro opinione continuamente e su tutto grazie alla rete, ai social network e a piattaforme come Rousseau. Certo, la qualità del pensiero e della produzione delle leggi può risentirne, visto che una delle caratteristiche fondamentali della discussione in rete è la prevalenza di opinioni e giudizi «che agiscono sul presente e che non conservano memoria».

Ma se si andasse oltre le previsioni del contratto di governo? Se si finisse con un Parlamento ridotto, come ha detto a «La Verità» Davide Casaleggio, «a tradurre in atti concreti la volontà dei cittadini» o addirittura, «nei prossimi lustri» «non più necessario» e dunque annientato?

Neanche David van Reybrouck, nel libro che piaceva al padre Gianroberto, si è spinto fino a immaginare la completa abolizione del Parlamento. L’intellettuale belga, probabilmente letto anche da Grillo, è contro le elezioni, ritiene che siano un sistema oligarchico, e propone di sostituirle con il sorteggio che vigeva nell’Atene periclea (l’assemblea del popolo era aperta a tutti, il Consiglio dei cinquecento era invece «aleatorio»), nella Repubblica veneta e nella Signoria fiorentina. Il sorteggio sarebbe la realizzazione perfetta del principio grillino dell’«uno vale uno»: un cittadino qualunque viene catapultato in Parlamento e viene presto sostituito da qualcun altro (al sorteggio si associa sempre la rotazione).

Van Reybrouck, però, propone di affiancare un’assemblea sorteggiata a quella elettiva del Parlamento europeo, non vuole abolire del tutto le elezioni. E non vuole abolire per nulla la rappresentanza, nella consapevolezza che qualcuno deve occuparsi a tempo pieno delle leggi, mettendo da parte per un periodo più o meno lungo il proprio lavoro di sempre. Ve li immaginate, altrimenti, i «cittadini totali» senza Parlamento, costretti a decidere su tutto, che ricevono sullo smartphone le proposte di legge e gli emendamenti e cliccano sul Sì o sul No mentre aspettano l’ascensore? Probabilmente deciderebbero come adesso fanno sui moduli per la privacy, accettando le condizioni senza neanche leggerle, perché semplicemente non hanno tempo. Ne verrebbero fuori delle leggi mostruose, o, peggio, decise in chissà quali stanze occulte del potere e ratificate acriticamente dal popolo. Sarebbe questa la democrazia perfetta?

Mario Garofalo     Il Corriere  28 luglio 2018

 

 

Gli orfanelli di Rousseau

Rousseau, Rousseau, Rousseau… A prescindere dalla consultazione: chi avrebbe mai chiesto un consiglio di strategia politica a Jean Jacques Rousseau? E non solo perché si trattava di un tipo davvero molto particolare, a cominciare dall’aspetto: berretto di pelaccio calcato in testa, enorme caffettano rosso e borsa di cuoio perennemente tra le gambe perché era malato e aveva sempre bisogno di fare la pipi.

Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord (1754- 1836)

Pochi lo ricordano, ma nel febbraio 2018, poche settimane prima che cominciasse l’avventurosa storia governativa dei Cinque Stelle, Beppe Grillo andò in pellegrinaggio a Ginevra; e lì all’isola si fece un video, come al solito frenetico, divertente e sconclusionato, in cui chiamando per nome Jean Jacques, aggrappandosi e facendo toc toc sul basamento della sua statua, non senza aver ricordato la scomoda malattia urinaria che affliggeva il filosofo e dopo averlo proclamato «il più grande puttaniere della storia», con ambivalente solennità dichiarò Davide Casaleggio suo unico erede e infine la promessa: «Noi, i tuoi piccoli insignificanti discepoli porteremo il tuo verbo agli italiani».

E di nuovo – ah, potenza del dubbio! - viene da chiedersi come avrebbe accolto quella rumorosa visita l’illustre misantropo’. La definizione si deve a un proverbiale interprete del camaleontismo politico. Charles-Maurice de Talleyrand Perigord, che giovanissimo considerava Rousseau il suo idolo e faticò non poco per incontrarlo e diventare suo amico, prima dell’inevitabile bisticcio. Nelle sue memorie, Rousseau viene fuori come supremo attaccabrighe, iroso, sdegnoso, vanitoso, ingrato, autolesionista, commediante e profittatore soprattutto – cosi lo sistema Talleyrand -   in lui «la follia lottava corpo a corpo con l’intelletto».

Ora dispiace e al tempo stesso consola grufolare nella storia dei Grandi: quello non si lavava, quell’altro rubacchiava, quell’altro ancora gli piacevano le ragazzine, o beveva, o tirava cocaina. Ma il versante umano, per cosi dire, dell’inventore della democrazia diretta proclamato santo protettore del grillismo adattabile, presenta una tale gamma di opzioni nefaste da offrire un inevitabile complemento di metafore buone per l’oggi.

Di tutte le colpe di Rousseau quella che fa più impressione riguarda i figli: cinque in effetti ne ebbe dalla sua compagna guardiana Teresa, e tutti e cinque li abbandonò alla ruota dei trovatelli, come racconta lui stesso con raccapricciante onestà nelle Confessioni. Anche solo questo impedisce ai Cinque Stelle di dichiararsi suoi devoti figli. Si aggiunga che il genio di Jean Jacques aprì anche gli orizzonti della pedagogia. Si racconta che un tale gli disse un giorno di aver educato i suoi figli secondo i suoi consigli: «Peggio per voi» rispose «e per loro».

Filippo Ceccarelli    in Venerdì di Repubblica 13/9/2019

 

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