Le vie del populismo non sono infinite, ma certo molteplici e variegate, al punto che talvolta fatichiamo a riconoscerle. Prendiamo ad esempio il movimento politico e d’opinione che si è creato su scala globale intorno alla giovane attivista svedese Greta Thunberg. La causa perorata da quest’ultima è certamente nobile e grandiosa: la salvaguardia del pianeta contro il rischio – dato come imminente – della sua distruzione causata dai cambiamenti climatici.

Ma come definire, se non come tipicamente populiste, le modalità attraverso le quali Greta e i suoi seguaci stanno conducendo la loro battaglia? Basta una buona causa per giustificare un modo discutibile (se non in prospettiva pericoloso) di mobilitare le masse?

Se il populismo in sé – con la sua miscela di demagogia, culto del leader, manicheismo ideologico, settarismo, appello al popolo ed emotività di massa - rappresenta, come molti sostengono, un modello politico tendenzialmente ostile nei confronti della democrazia (delle sue procedure istituzionali e del suo costume) come è possibile non mostrarsi apertamente critici, o perlomeno criticamente scettici, nei confronti di questa sua variante che potremmo definire “populismo ambientalista”?

Gli stilemi tipici del populismo, se si guarda al modo con cui è cresciuto nel mondo il “fenomeno Greta” (sino a diventare qualcosa a metà tra una moda politico-mediatica che si fa forte della nostra cattiva coscienza e un movimento di massa che inclina verso il misticismo para-religioso), sono tutti facilmente riconoscibili.

A partire dal più elementare e costitutivo d’ogni populismo: la divisione del mondo in buoni (i molti) e cattivi (i pochi). I primi sono gli abitanti del pianeta (il popolo inteso in questo caso come umanità), i secondi sono i capi di governo e gli esponenti dell’establishment finanziario e industriale mondiale.

I primi sono portatori di una visione politica che persegue la tolleranza, il benessere garantito a tutti, la pace e un sistema economico che non sia distruttivo della natura e dei suoi fragili equilibri. I secondi, insensibili ai destini del pianeta e privi di senso morale, rincorrono solo il profitto economico e lo sfruttamento delle risorse.

A questi ultimi è concessa un’alternativa secca: pentirsi dinnanzi al mondo delle loro scelte sin qui scellerate (cambiando dunque radicalmente le loro decisioni) oppure sparire dalla scena lasciando il posto ad una nuova classe di politici-sapienti realmente in grado di porre fine al lento degrado dell’ambiente.

Si tratterebbe insomma di scegliere tra il bene assoluto (la salvezza dell’umanità) e il male assoluto (la distruzione del mondo): ma chi può ambire coscientemente a quest’ultimo obiettivo se non un nemico dell’umanità altrettanto assoluto per neutralizzare il quale ogni mezzo – dall’invettiva alla messa al bando legale – è dunque consentito?

Peraltro a sollecitare la creazione di una nuova coscienza del mondo, in polemica generazionale contro i loro genitori sopraffatti dal mito della carriera e della ricchezza materiale, sono i giovani e giovanissimi: puri e giusti per definizione, non ancora corrotti dai falsi miti di un progresso che non vuole accettare limitazioni, avanguardia priva di colpe della futura umanità.

Alessandro Campi    Il Messaggero  25/9/2019

 

 

San Francesco era meglio di Greta

Solo in un’epoca ipocrita, superficiale, ipnotizzata dai media, attenta al clamore e ignara della sostanza, si poteva creare un fenomeno come quello di Greta Thunberg diventata nel giro di un solo anno una superstar, invitata all’Onu e corteggiata dai grandi della Terra e anche da importanti e globalizzanti imprese del mondo. Il problema non è Greta i cui obiettivi sono sacrosanti anche se incompleti (salvare la Terra e gli uomini che la abitano dall’inquinamento).

Il fatto è che Greta e le anime belle che la seguono, credo in buona fede (le grandi imprese sono invece in totale malafede perché sanno benissimo che dal vibrante discorso della ragazza non sortirà nulla) sembrano non rendersi conto che per salvarci non solo ecologicamente, ma per salvare, cosa ancora più importante, la qualità della nostra vita, bisognerebbe sradicare completamente l’attuale modello di sviluppo.

Bisognerebbe cioè, come sostengono alcune correnti di pensiero americane, il bioregionalismo e il neocomunitarismo, “ritornare in maniera graduale, limitata e ragionata, a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano necessariamente per il recupero della terra e il ridimensionamento drastico dell’apparato industriale e finanziario”.

Bisognerebbe tornare a una vita più povera e più semplice. San Francesco che coniuga insieme il rispetto della natura (cioè della terra, dell’aria, dell’acqua, del vento e di tutti i fenomeni che l’accompagnano) con la povertà aveva capito tutto.

Il fraticello di Assisi che non a caso era figlio di un mercante capì per primo, con cinque secoli di anticipo, che l’ascesa di quella classe sociale, fino ad allora disprezzata da quasi tutte le culture del mondo, ci avrebbe portato alla situazione in cui ci troviamo oggi.

Il problema dell’inquinamento è addirittura di secondo grado, perché l’uomo è un animale molto adattabile, superato in questo solo dal topo. In primo piano c’è la nostra vita che la Rivoluzione industriale, col trionfo progressivo della Scienza tecnologicamente applicata e dell’Economia, ha reso complessa, faticosa e in definitiva disumana

Insomma bisogna tornare a essere più semplici e ragionevolmente più poveri (un accenno a questa consapevolezza nel discorso di Greta Thunberg c’è quando si scaglia contro il mito della crescita infinita). Se Greta e coloro che la seguono sono disposti a fare nella loro vita molti passi all’indietro noi siamo con loro.

Sono la produzione e il consumo che vanno radicalmente ridimensionati. Altrimenti tutto si ridurrà alle truffe della green economy e della bio, che non solo sono pannicelli caldi di fronte all’enormità del problema, ma si risolveranno in un ulteriore rilancio dell’attuale modello di sviluppo e per questo sono viste con favore dalla grande imprenditoria internazionale.

In quanto ai 500 scienziati che hanno inviato una lettera all’Onu vantando la loro competenza contro l’incompetenza di Greta e dei suoi è un modo di sgravare la propria coscienza sporca perché è proprio l’idolatria della scienza, non messa in discussione da nessuno, mi pare nemmeno da Greta, che ci ha portato al modello disumano in cui oggi viviamo.

Tutte, o quasi, le cose di cui si sta affanando in questi giorni io, senza la pretesa di essere un “illuminato” come Francesco (lui, frate, crede in Dio, io no) le avevo scritte 35 anni fa ne La Ragione aveva Torto?, dove per Ragione va intesa quella illuminista diventata il solo Dio unanimemente riconosciuto, insieme al Dio Quattrino suo stretto congiunto. Ne La Ragione facevo piazza pulita di tutti i luoghi comuni che hanno portato i vincitori illuministi a definire “bui” i secoli del Medioevo europeo, mentre i secoli veramente bui, secondo il mio modo di vedere, sono quelli che abbiamo vissuto a partire dalla Rivoluzione industriale e che ancora stiamo vivendo in forme sempre più oppressive.

Comunque non ci sarà lotta che potrà abbattere il mostruoso apparato che abbiamo costruito e in cui ci siamo infognati. Crollerà da solo sotto il suo stesso peso. Ma ai giovani, e non solo a loro, e in questo Greta torna ad avere una ragione piena, bisogna lasciare almeno la speranza: pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà come diceva Antonio Gramsci.

Massimo Fini      Il Fatto  27/ 9/ 2019


 

La demagogia rende uguali destra e sinistra

Non si atteggia a star Alain Finkielkraut. Abito scuro, camicia bianca, andatura dinoccolata: il celebre filosofo francese nemico giurato del “benpensantismo” arriva in sordina alla Foresteria Serego Alighieri, appena fuori Verona, dove lo attendono per la consegna del prestigioso premio Masi Grosso d’Oro Veneziano. Non si atteggia a star ma non lo disturba affatto sentirsi controcorrente. Specie se si tratta di icone popolari come Greta Thunberg.

Perché non le piace questa sedicenne che si batte per il pianeta?

«Del fenomeno Greta mi inquieta proprio che sia diventata un fenomeno, un’icona planetaria, gli adulti del mondo intero si prostrano davanti a lei. L’ecologia è troppo importante e urgente per lasciarla ai bambini. I giovani non hanno esperienza del mondo: come scriveva Primo Levi ne” I sommersi e i salvati”, non ammettono l’ambiguità. L’ecologia gli ha fornito l’occasione di essere manichei. Ma della questione ignorano la complessità, i casi di coscienza. Parlando di surriscaldamento del pianeta per esempio, il nucleare è parte del problema o della soluzione? Non gli interessa. Preferiscono insultare gli adulti. E poi c’è questo sciopero settimanale, dicono che faranno i compiti quando gli adulti faranno i loro: gli adulti perdono l’onore cedendo a questo ricatto. Il direttore di Liberation ha sentenziato che chi critica Greta è un reazionario, lo trovo sconvolgente: definire reazionario qualcuno significa considerarlo un ostacolo e non un interlocutore. Io invece difendo l’ecologismo esigente».

Greta però legge, e quanto a essere giovanissima anche Giovanna d’Arco lo era. Non è che rivede nella paladina verde il maggio ’68, la stagione di cui, pur avendone preso parte, è piuttosto critico?

«È possibile. Allora la giovinezza si scagliò contro la cultura vecchia. C’erano slogan barbarici. Philippe Muray ha scritto che la giovinezza è un naufragio. Sotto stato giovane, ma oggi capisco che è un’età malleabile, conformista e manichea, lo capisci quando ne esci. E’ il terreno della demagogia dove s’incontrano la destra e la sinistra, dove Obama e Salvini si danno la mano».

Ha scritto un’autobiografia in cui si interroga sulla sua immagine pubblica,n “À la première personne“: ha ragione chi la chiama nostalgico, moralista, reazionario?

«Un grande pensatore francese, Alfred Sauvy, ha detto che la democrazia non è mettersi d’accordo ma sapersi dividere. E un sapere che è sempre stato fragile ma oggi perde colpi. Il termine reazionario non ha senso, è un’invettiva. Se sono un nostalgico non sono un reazionario. Più il presente diventa selvaggio meno è permesso di uscirne con la memoria. Ci obbligano ad amare il presente, è stupido e ha qualcosa di totalitario. Sono stato serenamente professore in una scuola tecnica dove oggi insegnare è piuttosto l’arte del combattimento. Ho il diritto di essere nostalgico di quando i giovani non avevano il cellulare? Il cellulare è una catastrofe ontologica. E quanto al moralista, no, non lo sono, provo a riflettere sul presente e a diagnosticare: si chiama filosofia».

Francesca Paci     La Stampa  29/9/2019

 

Vedi:   Nella democrazia della rabbia i fatti sono i primi a cadere

I diritti negati alla Terra e a chi verrà dopo di noi

La natura è maligna ma la colpa è solo dell’uomo



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