Nel saggio di Ciliberto il mondo che i terzisti ignorano

Non dite al liberalissimo Piero Ostellino che quasi due secoli fa il liberale Alexis de Tocqueville aveva capito cose che lui mostra di non avere ancora capito adesso. Per esempio che nelle nazioni sviluppate, la democrazia fondata sul sacro e indiscutibile “verdetto popolare” scivola facilmente in una sorta di dispotismo “dolce”, in una “servitù regolata, mite e pacifica”, che si combina “meglio di quanto si immagini con alcune forme esteriori della libertà”. Questo perché, scriveva il pellegrino francese nel 1835 di ritorno dal nuovo mondo, “i nostri contemporanei sono continuamente tormentati da due passioni contrastanti: provano il bisogno di essere guidati e la voglia di restare liberi. Non potendo liberarsi né dell’uno né dell’altro di questi istinti contrari , cercano di soddisfarli entrambi contemporaneamente. Immaginano un potere unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini”.

È fin troppo banale, col senno di poi, leggere in queste parole un’anticipazione profetica di quello che è oggi il Popolo della libertà. Ma sarebbe una forzatura ridicola e insidiosa, che si può agevolmente ribaltare in chiave autoconsolatoria: se la democrazia era già in crisi nell’America dell’Ottocento, se la dittatura della maggioranza esiste dai tempi di Tocqueville, se fin da allora i cittadini abdicano volentieri   al “libero arbitrio” per diventare sudditi, perché inveire contro il populismo del Cavaliere? Non siamo di fronte a un bubbone scoppiato all’improvviso, ma a un fenomeno che rientra nella normale epidemiologia dei sistemi politici moderni, e non resta che prenderne atto, come ci invitano a fare quasi quotidianamente i soloni “liberali” del Corriere della Sera, tanto inflessibili con “la piazza” quanto indulgenti verso il Palazzo (Grazioli).   Nella pubblicistica italiana di oggi sono frequenti i tentativi di annacquare il ventennio berlusconiano nel brodo di presunti e indifferenziati trend mondiali (Populista? Lo è pure Sarkozy. Legge bavaglio? Guardate l’Ungheria!) o peggio di nobilitarlo andandone a ripescare lontane ascendenze storiche, e spogliandolo così della sua allarmante eccezionalità.

 Si sottrae felicemente a questo andazzo il bel saggio di Michele Ciliberto, La democrazia dispotica (Laterza, pagg. 224, euro 18,00) da oggi in libreria: un excursus corroborante lungo duecento anni di metamorfosi e degenerazioni dei sistemi democratici, dal potere carismatico alle derive plebiscitarie, rilette attraverso i classici del pensiero politico – Tocqueville appunto, ma anche Marx, Croce, Burckhardt, Max Weber. Un ottimo navigatore  per non perdersi negli acquitrini del populismo mediatico e trovare al più presto un’uscita di emergenza. Dopo aver premesso che “le patologie della democrazia non cominciano ovviamente con il berlusconismo”, Ciliberto invita a diffidare dei paralleli storici: “Nei classici ci sono osservazioni   che contribuiscono a illuminare il nostro presente, ma esse sono valide… da un punto di vista ‘morfologico’, non sul piano strettamente ‘empirico’. Così il “dispotismo dolce” di Tocqueville , il modello weberiano del “leader carismatico” o la “democrazia dell’ illibertà” di Marx non sono applicabili meccanicamente al satrapo di Arcore: un’anomalia postmoderna tutta italiana, che nessun pensatore moderno, per quanto geniale e lungimirante, avrebbe potuto presagire.

Secondo Ciliberto, 65   anni, cattedra di Storia della filosofia alla Normale di Pisa, l’uso privatistico dello Stato da parte del Cavaliere si muove nel solco del dispotismo classico: sostituzione dell’arbitrio alla legge, utilizzo dei “valvassori” in Parlamento per varare una sfilza di provvedimenti ad personam (ben trentasette), gestione proprietaria del partito e delle candidature,   specialmente femminili. Nel suo caso, però, tutto questo “si esprime in uno stile di vita e in modelli antropologici che hanno intorpidito – e penetrato – la società italiana in modo così profondo da non provocare più proteste o critiche in una larga parte della popolazione”. Ecco dove sta l’originalità di Berlusconi: nell’aver trasformato ”in una sorta di senso comune diffuso l’uso in chiave personale e privatistica della legge”. Una novità dirompente, che rende il suo dispotismo inedito e pressoché unico nel panorama mondiale. A sostenerlo sono stati i processi di trasformazione avvenuti nelle viscere del paese: “In questi ultimi vent’anni – denuncia il filosofo della Normale – l’Italia si è ripiegata, chiudendosi in se stessa, dando sfogo agli istinti peggiori sia verso   l’esterno che all’interno”.

I fatti li conosciamo bene: blocco della mobilità sociale a scapito delle giovani generazioni, retorica del “cambiamento” e del nuovo (vedi riforma Gelmini e della giustizia) a cui fa riscontro la completa paralisi dell’economia, e poi ancora acuirsi delle diseguaglianze, livellamento verso il basso dei redditi popolari, affermazione di un   potere centrale di tipo personalistico che si impone “come l’unico luogo in cui la comunità nazionale possa identificarsi”, dequalificazione della classe politica e parlamentare (“la peggiore senza alcun dubbio della storia repubblicana”). E, ciò che è più grave, “una crisi strutturale del principio del ‘pubblico’   – come valore comune, condiviso quale principio di democrazia e di eguaglianza tra i cittadini – dalla quale sono state potenziate nuove forme di razzismo”. È un clima che ricorda per tanti aspetti quello descritto da Tocqueville nella Democrazia in America: la società basata sull’eguaglianza “senza legami comuni” genera un “indebolimento antropologico… spingendo l’uomo a concentrarsi solo su se stesso e sul suo benessere personale”, il che “fa dell’indifferenza una specie di virtù pubblica”. Una collettività passiva, apatica, che è libera solo nell’attimo in cui votando sceglie il proprio padrone, e per tornare serva subito dopo. Ma almeno su un punto il nuovo dispotismo si distingue nettamente dal vecchio: che non parla alle classi, ai movimenti collettivi, ai partiti o ai sindacati, ma agli individui. Individui isolati, chiusi nel loro particolare “e pronti, nella crisi, a dislocarsi, sul piano politico, a destra o a sinistra, a seconda delle loro convenienze”. È di questo “volgo disperso” che il Cavaliere ha saputo abilmente intercettare gli umori, restando in sella per quasi vent’anni. Chi e come riuscirà a disarcionarlo?

 Più che nelle diagnosi, il vecchio dottor Tocqueville può esserci d’aiuto per le terapie. Di fronte alla palude del dispotismo “dolce”, il visconte francese era arrivato a rimpiangere i momenti rivoluzionari, che sono comunque un indice di vitalità sociale.   Ma senza arrivare a tanto (dietro ogni rivoluzione si profila l’ombra della ghigliottina, e il Novecento coi suoi massacri ci dovrebbe essere servito di lezione), invoca la necessità di “contrafforti” che limitino il potere. L’associazionismo, la partecipazione politica, e perché no anche il conflitto. Tutti modi per ricostituire vincoli spezzati e salvaguardare la libertà. Gli scudi di gommapiuma branditi dagli studenti (con sopra le copertine dei libri) sono un valido contrafforte rispetto al dispotismo che svilisce la cultura. È il contrasto tra élite vecchie e nuove, insegnava Piero Gobetti, il vero sale della democrazia liberale. Il consenso passivo, il tanto sbandierato “verdetto popolare” può diventare la sua tomba.  

QUANDO LA PLEBE HA FAME, FA LE RIVOLTE. QUANDO INCOMINCIA A MANGIARE, FA LE RIVOLUZIONI DIVENTANDO POPOLO. QUANDO E’ SATOLLA, SI ADDORMENTA E SI RISVEGLIA MASSA.     


 Riccardo Chiaberge        Il Fatto Quotidiano  8 gennaio  2011

 

vedi: La democrazia dispotica 


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