Vedi e ascolta: Diritto di resistenza
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Paolo Becchi è professore ordinario di Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova ed editorialista di Libero e de Il sole 24 ORE.
(L’articolo che segue è del 2010, al tempo del governo Berlusconi. Ma ciò su cui riflette è di estrema attualità e assolutamente rapportabile alle situazioni di oggi e al governo populista dell’emergenza senza fine che ci domina, certamente non migliore di quello di Berlusconi. g.l.r.)
La democrazia e il diritto di resistenza
Gli sviluppi di una crisi politica fatta di tattica e mai dichiarata sembrano dare torto all’ottimismo di chi annunciava la fine del governo. Se Berlusconi riuscirà entro il 14 dicembre a trovare una maggioranza parlamentare, per l’annunciato 25 aprile dovremo aspettare nonostante sia evidente che il suo è un potere personale, disinteressato del bene pubblico, colluso con apparati affaristici e criminali, inadeguato ad affrontare gli enormi problemi degli italiani.
Berlusconi trae forza dal saldo e viscerale rapporto con una parte rilevante del paese e sa di poter contare ancora, in caso di elezioni, sul consenso di una parte forse decisiva del corpo elettorale.
Nonostante i finiani abbiano smascherato e denunciato dall’interno della maggioranza la vera natura del berlusconismo; nonostante la crisi politica, l’inerzia del governo denunciata anche da Confindustria, la P3, gli affari di Verdini, le varie cricche ronzanti intorno al potere del capo, le escort, Ruby, le pressioni sulla Questura di Milano, i rifiuti di Napoli, la mancata ricostruzione dell’Aquila, la condanna di Dell’Utri per mafia, i comprovati rapporti personali tra Berlusconi e i boss di Cosa Nostra negli anni settanta e ottanta, le società off shore di Antigua, la grottesca tracotanza del capo e dei suoi, le promesse non mantenute; nonostante tutto questo e altro ancora, secondo i sondaggi il Pdl subisce solo una modestissima flessione nelle intenzioni di voto (compensata, per di più, dal crescente consenso per la Lega).
Scandali e nefandezze scivolano come acqua sul vetro nella opinione degli elettori del centrodestra. Il populismo mediatico ha eroso nel profondo le difese democratiche del paese: è il maciullamento delle menti di cui ha scritto Barbara Spinelli.
Dobbiamo prepararci alle ipotesi peggiori: o il voto, che rischia di confermare il potere di Berlusconi togliendogli ogni argine, o il proseguimento della legislatura con Berlusconi al potere. Sullo sfondo, la eventualità di una sua elezione alla presidenza della repubblica. È tempo per quella ribellione dal basso di cui ha scritto Sandra Bonsanti, e forse è ora di interrogarsi sulla attualità del diritto di resistenza.
Giuseppe Dossetti propose di inserirlo formalmente nella Carta Costituzionale quale diritto (e dovere) del cittadino in caso di attacco alla democrazia, con il solo fine di tutelare le istituzioni democratiche in modo – ovviamente – del tutto pacifico e senza uso di violenza, di alcun tipo. La proposta di Dossetti, in un primo tempo inserita nel progetto di Costituzione articolato nel 1946, non fu poi accolta nel testo definitivo per le difficoltà di precisare contenuti e modalità.
Fu comunque riconosciuta (tra gli altri dal costituzionalista Costantino Mortati, democristiano come Dossetti e membro della costituente) la connessione del diritto di resistenza con i principi della Carta Costituzionale, in particolare quello della sovranità popolare (articolo 1) e quello del dovere di fedeltà dei cittadini alla Repubblica e alla Costituzione (articolo 54).
La proposta di una ribellione dal basso di fronte ad un potere che sempre più diventa regime, insomma, si salda e si identifica con il diritto-dovere costituzionale di resistere. La ribellione è costituzionalizzata.
Si tratta di individuare come farla vivere, quali contenuti darle in una situazione in cui le istituzioni democratiche e la Costituzione sono formalmente indenni. L’obiettivo finale non può che essere il venir meno del consenso popolare per il berlusconismo.
Non è facile. Non lo è “convertire” chi fino ad oggi ha creduto, soprattutto per dinsinformazione, all’inganno berlusconiano. Ancora più difficile è convincere coloro che condividono i “valori” di cui Berlusconi si fa interprete e garante. Quel che è certo è che in questo compito la società civile ha un ruolo decisivo: di denuncia ma anche di proposta di modelli alternativi.
Ci aiuta nell’analisi un bellissimo articolo di Fabio Dei, antropologo dell’Università di Pisa, a proposito del libro di Zygmunt Bauman “La solitudine del cittadino globale” del 1999 (“Tra le rovine dell’agorà”, su “Testimonianze” n. 462 del 2009; lo si trova anche sul sito www.Fareantropologia.it).
Fabio Dei ricorda il pensiero di Bauman: i cittadini contemporanei sono soli perché, dissolta la sfera dell’agire politico, hanno perso la capacità e la possibilità di scelta del proprio destino attraverso un dibattito improntato a criteri condivisi di razionalità.
Bauman si rifà ai tre grandi ambiti della organizzazione sociale della Grecia classica: Oikos, sfera domestica e privata; Ecclesia, luogo della politica e delle istituzioni di governo; Agorà, momento di comunicazione e integrazione tra le altre due sfere, in cui si determina attraverso il dibattito e il compromesso il significato del bene comune e delle scelte fondamentali che devono guidare le scelte della polis.
Né la sfera privata né il potere, che tende alla autoreferenzialità, sono infatti in grado, da soli, di determinare valori e finalità fondamentali dell’agire pubblico. Il concetto di Agorà, secondo Bauman, include quello di società civile, di conversazione razionale e di educazione (o “Paideia”): si tratta di “istruire e addestrare gli individui nell’arte di usare la loro libertà di scelta” in conformità alle leggi ovvero nell’arte di definire valori e opzioni morali; in conclusione, di definire in concreto un concetto di bene comune praticabile, cioè legittimo e non utopico.
Altra notazione illuminante: mentre in passato era l’Ecclesia (i regimi totalitari) ad opprimere la società civile, oggi, in regime tardo-capitalistico e consumistico, al contrario è la privatizzazione radicale dell’esistenza che minaccia di inaridirla. Quella privatizzazione radicale, si può aggiungere, che produce disimpegno e indifferenza per il bene pubblico e che in ultima analisi è il principale serbatoio di consensi per il berlusconismo.
Tutto ciò conferma, anche sul piano “scientifico”, l’importanza della mobilitazione della società civile e dell’associazionismo in una fase storica in cui la politica e il potere hanno perso la capacità (anche per sudditanza ai poteri della tecnica) se non anche la volontà di perseguire il bene comune.
Manca ancora una risposta sul cosa e come fare, ma da Bauman viene una indicazione di metodo. Il ruolo dell’Agorà, aiutare i cittadini ad esercitare la libertà di scelta, non deve implicare rinuncia alla complessità quando è nelle cose ed è necessaria per capire, né deve evitare i “discorsi difficili”, salvo rinunciare a quella “Paideia” senza la quale non c’è libertà di scelta.
Ma sarebbe un paradosso se l’indicazione di Bauman si traducesse in autoreferenzialità della società civile, intesa come ceto intellettuale in possesso di cultura e competenze utili alla collettività. Bisogna dare voce e dignità politica al senso di isolamento e di impotenza dei cittadini, rispettarne e condividerne ansie, contraddizioni e debolezze, incoraggiarne la voglia di riscatto.
Fabio Dei cita Don Milani: “Sortirne tutti insieme è politica”. Non è affatto facile, ma bisogna provarci, tutti insieme.
Sergio Materia in http://www.libertaegiustizia.it/2010/11/25/il-diritto-di-resistenza/
Il diritto di resistenza: percorsi storici e costituzionali di un diritto che c’è ma non si vede
“Se l’esattore delle tasse, o qualunque altro pubblico ufficiale, mi chiede, come qualcuno ha fatto, ‘ma cosa devo fare?’, la mia risposta è: ‘se vuoi veramente fare qualcosa, dai le dimissioni’. Quando il cittadino si rifiuta di obbedire, e l’ufficiale dà le dimissioni dal suo incarico, allora la rivoluzione è compiuta”.
Parole forti quelle di Hanry David Thoreau nel suo famoso trattato su La disobbedienza civile, ma che fanno ben comprendere quanto sentito sia stato e, probabilmente, ancora è, il c.d. diritto di resistenza…
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Il 13 dicembre 1946, nella I Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, fu approvato l’art. 2 del progetto di Costituzione che, al comma 1, recitava: “”La sovranità dello Stato si esplica nei limiti dell’ordinamento giuridico formato dalla presente Costituzione e dalle altre leggi ad essa conformi“. Nel secondo comma, proposto da Dossetti, si legge che “tutti i poteri emanano dal popolo che li esercita direttamente o mediante rappresentanti da esso eletti“.
A questo secondo comma si collegava l’articolo 3 proposto ancora da Dossetti: “La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino“. Compare così, per la prima volta, il diritto-dovere di resistenza, individuale e collettiva.
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Ad esempio, Aldo Moro intervenne per chiarire il collegamento tra gli articoli 2 e 3 del Progetto di Costituzione e rappresentò che nell’art. 3 “si precisa come al singolo, o alla collettività, spetti la resistenza contro lo Stato, se esso, avvalendosi della sua veste di sovranità, tenta di menomare i diritti sanciti dalla Costituzione e dalle leggi. Solo dopo aver dichiarato che la sovranità dello Stato è nell’ambito dell’ordinamento giuridico [art. 2], si ha la possibilità di sancire nella Costituzione il diritto di resistenza, contro gli atti di arbitrio dello Stato”.
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È, invero, lo stesso Costantino Mortati a confermare che dal silenzio della Costituzione non si può ricavare l’antigiuridicità della resistenza intesa quale giudizio di non conformità all’ordinamento giuridico. Del resto, lo stesso emendamento proposto dal giurista calabrese il 23 maggio 1947 – “È diritto e dovere dei cittadini, singoli o associati, la resistenza che si renda necessaria a reprimere la violazione dei diritti individuali e delle libertà democratiche da parte delle pubbliche autorità» – fu illustrato in modo da evidenziarne uno “scopo di chiarificazione formale del testo della Commissione. Esso ha di mira, da un lato, di distinguere l’aspetto della resistenza individuale da quello della resistenza collettiva; e, dall’altro, di mettere in rilievo il carattere di necessità che questa resistenza deve avere, onde potere considerarsi legittima”.
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Gerardo Scotti 11/9/2019 L’articolo completo in https://www.iusinitinere.it/il-diritto-di-resistenza-percorsi-storici-e-costituzionali-di-un-diritto-che-ce-ma-non-si-vede-23267
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