Critica del potere. Protesta. Rivolta. Sono queste le parole che rimbalzano da quei paesi del Mediterraneo da troppo tempo ridotti al silenzio e alla povertà. Ma anche in Europa, e soprattutto nel nostro paese, riprende vigore il dissenso e, dopo un quindicennio di conformismo berlusconiano, si irrobustiscono le voci critiche. La trasgressione del senso comune sembra finalmente tornare un valore. Più che di rivoluzione però, nel nostro caso si assiste soprattutto al ritorno del Soggetto con la maiuscola, quello che sceglie secondo coscienza. E magari arriva a decidere che ciò che è ovvio per tutti (e insieme quello che i politici che dovrebbe rappresentarlo vanno dicendo), non fa per lui. Peggio, non corrisponde al vero, è falso. Non si tratta però, con l’eccezione di Saviano, di un ritorno degli intellettuali, spariti da tempo dalla scena pubblica; ma di individui singoli che scelgono strade di radicale diversità: è il caso di Simone Perotti, di cui è appena uscito, per Chiare Lettere, Avanti tutta.
Manifesto per una rivolta individuale, seguito del fortunato volume con cui l’autore quarantenne raccontava la sua decisione di lasciare il lavoro e vivere una vita sotto il segno della libertà. «Si può vivere con poco, e soprattutto si può vivere bene», continua a sostenere oggi Perotti, in pagine dove racconta dell’insensatezza di una vita breve, mortale e tuttavia spesa quasi interamente per lavorare in aziende brutte, disorganizzate, dove i talenti vengono sprecati. Luoghi dove si spreca contraddittoriamente quel denaro che appare al tempo stesso come l’unica divinità in circolazione. Smettere di piangere su stessi, avere coraggio, fare scelte di libertà che vadano contro quello che appare socialmente ben visto, suggerisce invece Perotti. Una scelta difficile, perché se è vero che «il Sistema ci fa consumare, abitare, muovere in modo spesso insensato e disumano», al tempo stesso ci protegge dalla responsabilità: «Mettendoci al riparo dalle scelte, quel mondo ci assolve! Qualunque cosa capiti non è affar nostro, non è colpa nostra».
Il rapporto tra obbedienza al sistema, e insieme alla legge, e la loro violazione è al centro anche di un colto pamphlet dello studioso di politica Raffaele Laudani, Disobbedienza (Il Mulino), da ieri nelle librerie. Si tratta, secondo l’autore, di una relazione tormentata, perché se da un lato i miti fondativi della cultura occidentale – da Adamo ed Eva ad Antigone – fanno della rottura della norma il «punto di partenza del Soggetto moderno, l’atto che consente all’individuo di uscire dallo stato di minorità»; dall’altro, « dal punto di vista politico la disobbedienza resta un tabù, attività proibita e scabrosa». Ma soprattutto – è un tema centrale di tutta la filosofia politica – se la legge si fonda sulla verità, la verità può non coincidere con l’opinione della maggioranza. In questa non coincidenza del vero con ciò che è creduto dai più, ma che spesso è politicamente e socialmente vincolante, sta il tormento del cittadino, diviso tra ascolto delle proprie intime convinzioni e la loro dissonanza con ciò che sembra giusto a tutti gli altri. Non è un caso che Simone Perotti racconti che il sentimento più diffuso di tutti i lettori che gli hanno scritto è il sollievo scaturito dalla scoperta di non essere pazzi, di non essere gli unici a vivere con dolore il contrasto tra ciò che si avverte come autentico e ciò che appare. Si tratta di un contrasto che ha sempre caratterizzato, scrive a sua volta Laudani, anche il pensiero cristiano, spesso combattuto, nonostante il principio del «dare a Cesare ciò che è di Cesare», tra l’obbedienza alla volontà di Dio e quella all’autorità statale. E che forse comincia ad essere oggi più avvertito, anche se la voce dei cattolici non allineati resta ancora flebile.
Due sono le strade praticate per sottrarsi alla condizione di dipendenza da una tirannia (che può essere politica ma anche economico-sociale) e per riaffermare la propria condizione di esseri razionali e liberi. La contestazione aperta al sistema, come hanno fatto nella storia, tra gli altri, il femminismo, il marxismo, il sessantotto fino ai contemporanei hacker; o la fuga da quel sistema, il ritiro in una zona remota e privata dove non sono in vigore norme che costringono all’inautenticità. Si tratta in entrambi i casi di scelte difficili, perché «la libertà non è a costo zero. E non è per tutti», sostiene Perotti. «Ogni giornata impone scelte, rimanda a noi la responsabilità di cosa fare, quando, a che costo, perché, come. Siamo individualmente e socialmente più esposti, non veniamo protetti da alcuno scudo condiviso»(anzi, aggiunge l’autore di Avanti tutta, «abbiamo perfino la responsabilità della felicità»). Eppure, anche se non rivoluzionarie, le scelte dell’aperto dissenso, o della dissociazione silenziosa, sono capaci di cambiare la società e persino la storia. La disobbedienza, scrive Laudani, non è «soltanto una modalità di praticare il conflitto sociale (“Il progetto dell’esodo e della liberazione”) ma anche e soprattutto un modo d’essere della democrazia radicale». A differenza della rivoluzione violenta, è il «motore di un lungo processo di trasformazione che non mira alla presa del potere politico, quanto piuttosto alla crescita della nuova società nel guscio della vecchia». «Per capire quanto possa essere efficace un’arma come questa», ha scritto Hannah Arendt, una delle filosofe che più ha analizzato il tema della disobbedienza civile, «dobbiamo solo immaginare per un istante che cosa sarebbe accaduto a questi regimi se abbastanza gente avesse agito “irresponsabilmente”. Negando cioè il proprio sostegno, anche senza scatenare una ribellione o una resistenza attiva ».
Elisabetta Ambrosi Europa 25 febbraio 2011