Il modo autoritario con cui viene trattato il problema del virus e il taglio dei parlamentari non sono due problemi diversi ma le due facce della stessa medaglia: l’eversione della democrazia. (GLR)
No Al Populismo. Contro il tentativo ipocrita di umiliare la politica e di superare la democrazia rappresentativa
Ci sono ragioni tecniche e costituzionali, molto giuste e molto importanti, che spiegano perché il referendum antiparlamentare di Di Maio e associati è da bocciare. Ma fermare il taglio dei parlamentari è innanzitutto una battaglia politica e culturale contro i demagoghi di governo e i sovranisti d’opposizione.
Il 20 e 21 settembre gli italiani saranno chiamati a votare per il quarto referendum costituzionale della storia repubblicana (2001, 2006 e 2016 i precedenti), certamente il più grottesco e il più pericoloso di sempre perché il tema del quesito non è la modifica dei rapporti tra Stato e Regioni o della seconda parte della Costituzione o del bicameralismo perfetto, tutta roba seria e ragionata, ma il taglio lineare dei parlamentari, da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori, contro il quale in questi tempi impazziti in pochi hanno il coraggio di fare la cosa giusta: intestarsi una nobile battaglia in difesa della politica e delle istituzioni repubblicane, pur sapendo di andare incontro a una disfatta nelle urne.
Ma dire No è una cosa che va fatta, anche a costo di essere soltanto in dodici, come i professori che nel 1931 si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. A dire di No, a differenza di allora, questa volta non si rischia niente, cosa che rende ancora più necessario e urgente farlo.
Dietro la scelta demagogica e apparentemente innocua di voler ridurre il personale politico non c’è un’idea di riforma dello Stato né alcunché di elevato, ma soltanto una visione meschina della politica e una volontà punitiva nei confronti della democrazia parlamentare.
Casaleggio padre aveva l’obiettivo di sostituire la democrazia rappresentativa con una piattaforma digitale di sua proprietà, l’erede Casaleggio immagina un futuro senza parlamenti e molta blockchain, l’intendenza grillina viola palesemente l’articolo 67 della Costituzione imponendo ai tanti agenti Catarella mandati in Parlamento un vincolo di mandato e di obbedienza al volere della piattaforma, con tanto di contratto e di penali.
Ridurre i parlamentari va in quella direzione, non solo perché il taglio umilia ancora una volta l’attività politica, ma perché renderà impossibile il corretto funzionamento delle Camere. Tolti il centinaio di membri del governo, dalla prossima legislatura far funzionare Commissioni e Aula sarà un’impresa, ma l’obiettivo è esattamente quello di non farle funzionare, e di contribuire ad abbattere la repubblica parlamentare per sostituirla con quella digitale. Non è uno scherzo.
Il taglio dei parlamentari è il compimento della campagna contro la casta cominciata nella piazza bolognese del vaffa e nella sala Albertini di Via Solferino. Andando più indietro, le origini risalgono all’epoca di Mani Pulite, alla furia giustizialista contro i partiti e all’umiliazione del cappio in Parlamento.
Col referendum, l’attuale manica di mentecatti al potere e i loro volenterosi complici dell’establishment provano a incassare. Vinceranno, hanno già vinto. Ma votare No è una medaglia al valor civile.
Le ragioni tecniche sull’inutilità della riduzione del numero dei parlamentari le trovate in questo numero speciale de Linkiesta, ma la questione principale per votare No al quesito costituzionale di Di Maio non è che il risparmio annuale sarebbe soltanto dello 0.007 per cento del bilancio statale né che i lavori delle due Camere andrebbero in tilt, tantomeno quella stravagante del Pd secondo cui il taglio dei deputati e dei senatori così com’è è un pericolo per la democrazia, ma se si cambiasse anche la legge elettorale allora andrebbe benissimo. È talmente una scemenza che il Pd alla fine ha deciso di votare Sì, nonostante la legge elettorale non sia stata modificata. Ora la giustificazione del cedimento alla cultura populista dei Cinquestelle è che i contrappesi si potranno fare dopo. Certo, come no.
La questione è politica e culturale e in realtà non va nemmeno nobilitata dandogli un peso costituzionale, visto che i padri ignobili di questa cosiddetta riforma sono Grillo e Di Battista, Gianluigi Paragone e Vito Crimi, i giornali giustizialisti formatisi nella temperie di Mani pulite e di altre operazioni politico-editoriali di sanificazione pubblica contro la casta.
Dopo aver riempito le istituzioni di mezze calzette e il parastato di compagni di pizzate, svilendo per almeno un paio generazioni la credibilità della politica in modo irreparabile, il taglio dei parlamentari è, come detto, il secondo passo verso l’abbattimento della repubblica parlamentare per cominciare a sostituirla con quella digitale, qualunque cosa voglia dire.
Nel 1993 Marco Pannella organizzò gli «autoconvocati delle 7», dall’orario in cui riuniva a Montecitorio i deputati sotto attacco della magistratura che li inquisiva e della stampa che li delegittimava, con una delle più funamboliche ma preziose trovate in difesa delle istituzioni della sua ampia e acrobatica carriera.
Fosse ancora tra di noi, Pannella sarebbe senza dubbio il leader della difesa del Parlamento, come in effetti lo sono i suoi eredi confluiti in +Europa. Gli avremmo ceduto il timone degli «autocovoncati de Linkiesta», anche perché il No è l’occasione perfetta per i democratici e i liberali e i socialisti, non importa se di sinistra o di destra, non importa se di governo o di opposizione, di fare fronte transpartitico contro gli stronzi.
Il No al referendum è un No al populismo, è un No ai demagoghi e ai sovranisti con le peggiori intenzioni, la via d’uscita a disposizione di dirigenti e elettori del Pd e di Forza Italia per liberarsi dell’illusione di poter domare la bestia che ciascuno di loro nei rispettivi schieramenti ha coltivato con insuccesso.
La bestia populista non si doma, non si accarezza, si sconfigge nel paese e nelle urne. Se non ora, la volta successiva. Ma bisogna provarci, non consegnarsi mani e piedi.
In un certo senso gli artefici dell’alleanza strategica tra Partito democratico e Cinquestelle vanno ringraziati perché il passaggio formale del Pd al fronte populista offre un’occasione formidabile per costruire un polo alternativo al monopopulismo perfetto composto dai sovranisti e dai nazionalisti di destra e ora anche dai demogrillini.
Si apre, quindi, uno spazio politico per i liberali, i democratici, i socialisti, i repubblicani, gli europeisti, gli ambientalisti, non solo quelli già coinvolti dai partiti di Matteo Renzi, Emma Bonino, Carlo Calenda, ma anche i dirigenti e gli elettori del Pd e di Forza Italia che non accettano di essere guidati gli uni dagli illiberali Matteo Salvini e Giorgia Meloni e gli altri dai demagoghi, dai mozzorecchi e dai teorici del superamento della democrazia rappresentativa.
Saranno ancora pochi, ma c’è tutto il tempo per organizzarsi in vista delle elezioni del 2023 e magari della caduta di Donald Trump il 3 novembre, il giorno del redde rationem con il populismo.
Intanto, col referendum del 20 settembre, si giocherà la prima partita populisti-antipopulisti: con Meloni e Zingaretti e Salvini e Di Maio e Travaglio uniti nel fronte del Sì all’attacco miserabile alla politica e alla casta, con l’ausilio dei fellow traveller dei “riformisti per il Sì” che sono la versione di sinistra e altrettanto grottesca dei “liberali per Salvini”.
Dall’altra parte c’è l’Italia che resiste in difesa delle istituzioni democratiche, della politica dei dati di fatto e della decenza del dibattito pubblico. Al referendum il vantaggio dei primi sembra insormontabile, ma non bisogna scoraggiarsi come non si scoraggiarono quei dodici professori che ottantanove anni fa scelsero con coraggio di non giurare fedeltà al fascismo.
Christian Rocca LINKIESTA 18/9/2020
Perché non posso dire che i grillini sono ‘fascisti’?
Scriveva Giuseppe Antonio Borgese (1882- 1952, accademico, ndr): «Cesare morì e la tirannia continuò. Perché la tirannia non risiedeva nel cuore di Cesare, ma era nel cuore dei Romani». Era quel che Borgese – che non prestò giuramento al fascismo, e non a caso è pressoché straniero nella Repubblica che si pretende fondata sull’antifascismo – pensava di quel regime e delle ragioni profonde che ne determinarono l’accreditamento.
E cioè che gli italiani erano disponibili a sottomettervisi, desiderosi di uniformarvisi, e che non avrebbero conquistato una genuina condizione di libertà se non avessero prima soppresso la propria propensione alla tragica facilità della soluzione autoritaria.
La verità – tanto ovvia quanto denegata – è che il fascismo non ha rappresentato una carambola imprevedibile della storia italiana, l’agente estraneo e tossico incomprensibilmente inoculato in un corpo altrimenti sano: ma la consacrazione di una vocazione originaria degli italiani.
Morto Mussolini, il fascismo è continuato perché esso non risiedeva nel manganello usato per conculcare la libertà, ma nella buona disposizione degli italiani a rinunciarvi spontaneamente.
E i tratti essenziali del fascismo sarebbero perdurati lungo il corso repubblicano esattamente perché non era morto negli italiani quell’anelito illiberale, questa malattia della tempra civile che il fascismo si limitò a coltivare e a irreggimentare.
Se in Italia manca una genuina cultura antifascista, e cioè un criterio capace di vedere il fascismo dove esso veramente si manifesta, è perché il Paese ha sempre rifiutato di riconoscere se stesso nel fascismo che ha imperato, un accidente simbolicamente risolto (e anche questo è assai significativo) con cinque cadaveri appesi in Piazzale Loreto.
Ed è a causa di questo mancato riconoscimento che la persistenza fascista è disconosciuta, e semmai identificata nel perimetro di qualche modesto assembramento a braccio teso. È in questo senso e in questo quadro che il Movimento 5 Stelle si giustappone in perfetta continuità fascista.
Non in modo inedito, ovviamente, ma mai prima l’eterno fascismo italiano di cui scriveva Sciascia aveva assunto una simile compiutezza e mai prima, banalmente, si era trasferito dal luogo comune alle aule parlamentari, dalla società in cui ribolliva informe al potere di governo.
Proviamo a cambiare una parola, solo una, in queste righe di Gadda (Carlo Emilio Gadda, scrittore, 1893- 1973) (Eros e Priapo): «Si trattava per lo più di gingilloni, di zuzzurulloni, di senza-mestiere dotati soltanto d’un prurito e d’un appetito che chiamavano virilità, che tentavano il cortocircuito della carriera attraverso la “politica”.
Qual è la parola da (innocuamente) sostituire? È “virilità”, e non serve scrivere qual è quella che la sostituisce, perché si scrive da sola: “onestà”. La cultura rozza di Mussolini era comunque quella di un uomo che aveva studiato in un’Italia in cui almeno alcuni studiavano: l’analfabetismo grillino è la versione aggiornata di quell’arretratezza in un’Italia dove semplicemente non si studia.
Ma così nel fascismo mussoliniano come in quello grillino è il medesimo imparaticcio a sostituire la fatica dello studio: e mentre quello, oscuramente, detestava la cultura che non possedeva, quest’altro, platealmente, ne rigetta il valore senza nemmeno dolersi di esserne privo semplicemente perché cent’anni dopo il curriculum di un venditore di lupini è sufficiente a gridare dal balcone che la povertà è abolita.
La radice della soluzione autoritaria è rigidamente impiantata in questo desiderio di scorciatoia umana e formativa, che è poi lo stesso che si scatena quando si tratta di informare l’economia alla nazionalizzazione, il controllo sociale alla delazione, la giustizia all’inquisizione, il potere di governo al capriccio della decretazione sbrigliata: tutti segni di quel medesimo, drammatico ripiego che esclude l’impegno della disciplina, della preparazione, del cimento in un lavoro serio.
E che sotto sotto è di tipo usurpativo: non il popolo che riempie il potere, ma i suoi pretesi rappresentanti che se ne riempiono ottenendo in forma di titolo parlamentare e di stipendio per quanto dimezzato la propria consistenza sociale, quella lividamente invidiata in chi – necessariamente corrotto, usuraio, ladro – se l’è costruita secondo la regola antipatica del merito.
Il carattere neofascista del Movimento 5 Stelle è infine nella violenza delle forbici che fanno a pezzi quello striscione, che preconizza lo sfregio costituzionale tra pochi giorni affidato alle cure di un popolo chiamato a dire “Sì” a quella cultura piuttosto che a un discutibile emendamento dell’ordine repubblicano.
Ovviamente è possibile non essere d’accordo. Ma non si citino, a contrasto, l’olio di ricino e l’omicidio di Matteotti: perché l’olio di ricino non serve, e un Matteotti da ammazzare semplicemente non c’è.
Iuri Maria Prado, avvocato Il Riformista 17 Settembre 2020
Libertà di voto
«Purtroppo c’è libertà di voto». Così ha sentenziato il profilo Twitter del sottosegretario pentastellato all’Economia Alessio M. Villarosa, che ha dato la colpa delle parole allucinanti a un «collaboratore».
Del resto, si sa, in Italia una parte della classe politica agisce spesso «a propria insaputa». Un tweet dal sen fuggito che è una spia del mai sopito antiparlamentarismo grillino. Di fronte al quale la libertà di voto per il No nel referendum sul taglio dei parlamentari sembra una battaglia impari.
Segnata dall’ennesimo ribaltamento del M5S, da movimento antisistema a formazione guidata da un ceto di professionisti della politica e fattasi «di sistema» (o «nel sistema», come ha scritto qui Sofia Ventura), al punto da inaugurare il «trasformismo integrale di partito».
Libertà di voto quale condizione strutturale di una democrazia liberalrappresentativa, quella che i 5 Stelle vivono con insofferenza nel nome di una sedicente «democrazia diretta» (che va piuttosto etichettata come ideologia del direttismo democratico).
Libertà di voto come invito ai cittadini a riappropriarsi di un diritto individuale inalienabile, insidiato da flussi comunicativi e propagandistici sempre più sofisticati.
Libertà di voto come resistenza razionale alla cyberpolitica dell’età della campagna elettorale permanente, che seduce per convertire l’elettore in un numero da Big data.
Libertà di voto e di pensare che il risparmio di un caffè pro capite per cittadino (secondo il calcolo di Carlo Cottarelli) non valga il prezzo della democrazia rappresentativa. Dove i Parlamenti – come diceva Giovanni Sartori - devono anche dare forma, e non solo trasmettere una volontà (a differenza di quanto teorizzano gli ultrà del vincolo di mandato).
In poche parole, libertà di voto per il No, come quella che abbracceranno tanti elettori progressisti e di sinistra per non arrendersi al populismo.
Massimiliano Panarari, sociologo L’Espresso 13/8/2020
ANNO I DEL REGIME SANITARIO
Per favorire la riflessione politica e giuridica per poter scegliere di VOTARE NO al referendum sul taglio dei parlamentari del 20/21 settembre 2020 Giovannini ha scritto un pamphlet dettagliato in PDF (pubblicato sul sito de L’Opinione) che trovate qui sotto e che potete scaricare e far circolare.
Il testo è lungo ( con evidenziati i passaggi fondamentali), da leggere con calma durante questa settimana per favorire una maggiore comprensione dei gravi rischi connessi al taglio dei parlamentari e per maturare una scelta più consapevole. Un dovere civile e morale!
E se, purtroppo, il referendum dovesse far prevalere i SI al taglio dei parlamentari questo PDF rimane un prezioso testo di studio per continuare la lotta politica e resistenziale verso i populismi. (GLR)
alessandro-giovannini-il-taglio-dei-parlamentari
L’idea distorta della democrazia ridotta
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Stampa e diffondi il volantino per votare NO al referendum del 20/21 settembre 2020