Intervista a Gino Strada di Wanda Marra

L’opinione pubblica tace e le coscienze dormono, ma secondo il leader di Emergency, nonostante sia stato preso alla sprovvista, “il movimento arcobaleno reagirà”“La guerra è stupida e violenta. Ed è sempre una scelta, mai una necessità: rischia di diventarlo quando non si fa nulla per anni, anzi per decenni”. Gino Strada, fondatore di Emergency (che tra l’altro proprio in questi giorni sta lanciando il suo mensile E, in edicola dal 6 aprile), mentre arriva il via libera della comunità internazionale all’attacco contro la Libia e cominciano i primi bombardamenti, ribadisce il suo “no” deciso alla guerra come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, citando la Costituzione italiana.

Che cosa pensa dell’intervento militare in Libia?

Questo è quello che succede quando ci si trova davanti a situazioni lasciate incancrenire. L’unica cosa che auspico è che si arrivi in fretta a un cessate il fuoco. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu è molto ambigua nella formulazione: vanno adottate “tutte le misure necessarie per proteggere la popolazione civile”. Vuol dire tutto e niente.

Dunque, lei è contrario?

Assolutamente. Il mio punto di vista è sempre contro l’uso della forza, che non porta da nessuna parte.

Ma allora bisogna stare a guardare mentre Gheddafi bombarda la sua popolazione?

Sono un chirurgo. Non faccio il politico, il diplomatico, il capo di Stato. Non so in che modo si è cercato di convincere Gheddafi a cessare il fuoco. E poi le notizie che arrivano sono confuse e contraddittorie.

Però, alcuni punti sembrano chiari: che Gheddafi è un dittatore, contro il quale c’è stata una rivolta popolare e che sta massacrando i civili, per esempio…

Che Gheddafi sia un dittatore è molto chiaro. Che stia massacrando i civili è chiaro, ma impreciso: lo fa da anni, se non da decenni. E noi, come Italia, abbiamo contribuito, per esempio col rifornimento di armi. Se il principio è che bisogna intervenire dovunque non c’è democrazia, mi aspetto che qualcuno cominci i preparativi per bombardare il Bahrein. Che facciamo, potenzialmente bombardiamo tutto il pianeta? Sia chiaro, non ho nessuna simpatia per Gheddafi, ma non credo che l’uso della violenza attenui la violenza. Quanti dittatori ci sono in Africa? Bisogna bombardarli tutti? E poi: con questo ragionamento, la Spagna potrebbe decidere di bombardare la Sicilia perché c’è la mafia.

Questo conflitto però viene percepito come intervento umanitario, più di quanto non sia accaduto, per esempio, con quelli in Afghanistan e in Iraq. Lei non crede che questo caso sia diverso da quelli?

Ogni situazione è diversa dall’altra. I cervelli più alti del pianeta hanno una visione della politica che esclude la guerra. Voglio rifarmi a ciò che scrivono Einstein e Russell, non a ciò che dicono i Borghezio e i Calderoli. Sarkozy non mi sembra un grande genio dell’umanità. E dietro ci sono sempre interessi economici.

Ma qual è la soluzione?

A questo punto è molto difficile capire cosa si può fare. Si affrontano le questioni quando divengono insolubili. A questo punto che si può fare? Niente, trovarsi sotto le bombe. Non è possibile che si ragioni sempre in termini di “quanti aerei, quante truppe, quante bombe”. Invece, magari avremmo potuto smettere di fare affari con Gheddafi.

Che cosa pensa della posizione italiana?

Vorrei conoscerla. Frattini un paio di giorni fa ha detto che “il Colonnello non può essere cacciato”. Cosa vuol dire: che non si deve o non si può? Noi non abbiamo nessuna politica estera, come d’altra parte è stato ai tempi dell’Afghanistan e dell’Iraq.

Salta agli occhi come questa guerra stia scoppiando senza una vera partecipazione emozionale. E senza nessuna mobilitazione pacifista. Per protestare contro l’intervento in Afghanistan ci furono manifestazioni oceaniche in tutto il mondo.

A Roma eravamo tre milioni.

E adesso dove sono quei tre milioni?

Non è un dettaglio il fatto che le forze politiche che allora promuovevano le mobilitazioni, in Parlamento poi hanno votato per la continuazione della guerra. E, infatti, la sinistra radicale ha perso 3 milioni di voti.

Ma al di là della politica, l’opinione pubblica tace.

Questa guerra è arrivata inaspettata: se andrà avanti sicuramente ci sarà una mobilitazione per chiedere che si fermi il massacro.

Inaspettata o no, il silenzio del movimento pacifista colpisce.

Il movimento pacifista esiste e porta avanti le sue battaglie, da quella per la solidarietà, alla lotta contro la privatizzazione dell’acqua, al no agli esperimenti nucleari. E certamente si farà sentire per chiedere la fine del massacro.

Dunque, secondo lei non c’è un addormentamento delle coscienze?

Certo che c’è, e non potrebbe essere il contrario. Abbiamo un governo guidato da uno sporcaccione, e nessuno dice niente. Ha distrutto la giustizia, e nessuno dice niente. Sono anni che facciamo respingimenti e si incita all’odio e al razzismo. Non sono cose che passano come gocce d’acqua.

 

Il Manifesto    20 marzo 2011

 

 

 

Libia, Giorgio Bocca: “Tutti voltagabbana. Ieri i baciamano, oggi i

bombardieri”

Daniela Preziosi intervista Giorgio Bocca

«Con che diritto noi dobbiamo andiamo a bombardare i libici? Non sono d’accordo». È l’ennesimo «non sono d’accordo con la guerra» che Giorgio Bocca pronuncia. Lo raggiungiamo alla notizia delle prime bombe sganciate in Libia dai caccia francesi. Bocca non ha bisogno di presentazioni. Classe 1920. Gli tocca commentare un’altra guerra, quella scoppiata ieri sera in Libia, a cent’anni esatti da quella italiana contro Tripoli. L’ultima guerra prima che lui nascesse.

Non è d’accordo con la missione dell’Onu in Libia?

No. Muammar Gheddafi fin qui stava al potere. I ribelli si sono rivoltati contro di lui. Noi che parte dobbiamo fare? Questo è una domanda a cui non saprei rispondere. Ma noi che parte stiamo facendo? In questo momento solo una: quella dei ricchi e potenti che vogliono mettere le mani sul petrolio libico. E non andiamo a raccontarcela diversamente.

Le Nazioni unite non dovrebbero organizzare la difesa degli insorti libici minacciati e uccisi dalle rappresaglie di Gheddafi?

Quando Israele attacca i palestinesi non si muove nessuno. Né mi pare che l’Onu si convochi in tutta fretta. Quella di oggi è chiaramente la reazione degli stati ricchi che su Gheddafi si sono improvvisamente ravveduti. Era il capo di una nazione. C’è stata una ribellione. Lui ha tutto il diritto di contrastare la rivoluzione che sta cercando di cacciarlo dal potere.

Per Gheddafi difendersi è legittimo?

Come è legittimo per i ribelli rivoltarsi. Ma noi che c’entriamo?

L’Italia non dovrebbe intervenire?

L’atteggiamento italiano è vergognoso. Prima Silvio Berlusconi parla di «amico libico», gli bacia la mano. Poi, oggi, vista la mala parata, fa l’antigheddafi. Alla fine ha ragione il raìs a dire che siamo traditori.

Scusi, difende Gheddafi?

Gheddafi è tutt’altro che raccomandabile. È un dittatore ridicolo. Basta vedere i suoi vestiti, i capelli tinti, la sua voglia di apparire giovane. È un Berlusconi del medio oriente. Ma fino a due mesi fa arrivava in Italia accolto dalle fanfare. Quindi proprio noi siamo gli ultimi titolati a criticarlo, figuriamoci attaccare la Libia. Per ragioni di coerenza. Siamo stati i suoi migliori alleati e compagni d’affari. La Juventus, addirittura, gli ha venduto una parte della società.

La posizione del governo è ipocrita?

È un governo voltagabbana.

Anche l’opposizione, almeno quella in parlamento con poche eccezioni, è d’accordo a che l’Italia partecipi all’intervento militare.

Perché condivide la logica dei più forti. Il principio è: per essere considerati potenti della terra bisogna ogni volta schierarsi col potente di turno. Oggi i ricchi e potenti hanno deciso che la Libia è diventata un ostacolo. Così l’hanno scaricata. E hanno fatto tutto a una velocità impressionante.

Per la verità sono gli insorti libici a voler tirar giù Gheddafi. La comunità internazionale dice di volerli difendere. Ha un’opinione sui ribelli del consiglio di transizione di Bengasi?

No, per me sono degli sconosciuti. Ma a quanto leggo dalle cronache, sono degli sconosciuti un po’ per tutti. Anche per quelli che fanno il tifo per loro.

Impressiona che dopo cent’anni esatti l’Italia torna in guerra in Libia?

Impressiona molto. Ma quello che impressiona di più è che finora abbiamo sentito tanti bei discorsi sul valore della pace. C’è voluto niente per tornare in guerra.

 

Il manifesto      20 marzo 2011

 

 

 

Così la comunità internazionale crea Stati figli e figliastri

L’Onu ha autorizzato i raid aerei sulla Libia. Francia e Gran Bretagna sono già pronte a far intervenire i loro caccia perché abbattano quelli di Gheddafi che bombardano i rivoltosi libici, e non è escluso che l’Italia metta a disposizione della Nato le sue basi aeree. Non è una dichiarazione di guerra alla Libia, non sia mai, oggi ci si vergogna di fare la guerra e si preferisce chiamarla “operazione di peace keeping” a difesa dei “diritti umani”. Salta definitivamente il principio internazionale di “non ingerenza militare negli affari interni di uno Stato sovrano” insieme al diritto di Autodeterminazione dei popoli sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti i Paesi del mondo, compresi quelli che stanno per intervenire in Libia. Qui siamo in una situazione diversa dagli interventi in Iraq nel 1990 e nel 2003 e in Afghanistan nel 2001. Nel primo conflitto del Golfo, l’Iraq aveva aggredito il Kuwait, uno Stato sovrano, sia pur fasullo creato nel 1960, esclusivamente per gli interessi petroliferi degli Stati Uniti. L’intervento quindi era legittimo, anche se il modo con cui fu condotta quella guerra fu bestiale perché gli americani, pur di non affrontare fin da subito, sul terreno, l’imbelle esercito iracheno (che era stato battuto perfino dai curdi, in quel caso Saddam fu salvato dalla Turchia il grande alleato Usa nella regione) e correre il rischio di perdere qualche soldato, bombardarono per tre mesi le principali città irachene facendo 160mila morti civili, fra cui 32.195 bambini (dati del Pentagono).

Nel 2003 c’era il pretesto delle “armi di distruzione di massa”. Si scoprì poi che queste armi, che Stati Uniti, Urss e Francia gli avevano fornito, Saddam non le aveva più, ma intanto gli americani hanno ridotto l’Iraq a un loro protettorato dove è in corso una feroce guerra civile fra sciiti e sunniti che provoca decine e a volte centinaia di morti quasi ogni giorno tanto che in Occidente non se ne dà più notizia. In Afghanistan si voleva prendere Bin Laden, ma dopo dieci anni la Nato è ancora lì e occupa quel Paese, avendo provocato, direttamente o indirettamente, 60mila morti civili (e nessun Consiglio di sicurezza si è mai sognato di imporre una “no fly zone” ai caccia americani che, per battere gli insorti, bombardano a tappeto cittadine e villaggi facendo ogni volta decine di vittime civili, come sta facendo Gheddafi in Libia).

La situazione è invece identica all’intervento Nato in Serbia dove, all’interno di uno Stato sovrano, c’era un conflitto fra Belgrado e gli indipendentisti albanesi, foraggiati dagli americani, del Kosovo che della Serbia faceva parte. Noi, che non abbiamo baciato la mano a Gheddafi, che non abbiamo permesso ai suoi cavalli berberi di esibirsi alla caserma Salvo d’Acquisto e al dittatore di volteggiare liberamente per Roma avendo al seguito 500 troie, e che parteggiamo per i rivoltosi di Bengasi, siamo assolutamente contrari a qualsiasi intervento armato in Libia. Per ragioni di principio e perché questi interventi internazionali sono del tutto arbitrari. Dividono gli Stati in figli e figliastri.

Nessuno ha mai proposto una “no fly zone” in Cecenia dove le armate russe di Eltsin e dell’ “amico Putin” hanno consumato il più grande genocidio dell’era moderna: 250 mila morti su una popolazione di un milione. Nessuno si sogna di intervenire in Tibet (chi si metterebbe mai, oggi, contro la succulenta Cina?) o in Birmania a favore dei Karen. E così via. In ogni caso bisogna essere consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni. Se l’Italia presterà le proprie basi per l’intervento militare in Libia non potrà poi mettersi a “chiagne” se Gheddafi dovesse bombardare Brindisi, Bari, Sigonella, Aviano o una qualsiasi delle nostre città. Gli abbiamo, di fatto, dichiarato guerra, è legittimato a renderci la pariglia.

 

Massimo Fini

 

 

Un conflitto per il petrolio

E così, annunciata ma inattesa, la vera guerra in Libia è cominciata. Ricordiamo le premesse. Francesi, inglesi e americani avevano detto che sarebbero intervenuti contro le truppe di Gheddafi e non avrebbero dato alcun rilievo al cessate il fuoco del colonnello. Quindi guerra. Nella situazione data è difficile pensare a una forte resistenza, anche se ci sarà e avrà le sue vittime. Il governo di Gheddafi non era certamente il migliore dei governi possibili, tuttavia poteva vantare un’indipendenza della Libia, antica colonia, prima ottomana e poi italiana. La fortuna-disgrazia della Libia è avere il petrolio, che – anche per i disastri giapponesi – diventa sempre più vitale per l’economia mondiale. Morale: il petrolio non può essere lasciato in mano a un soggetto come Gheddafi. Gli anglo-francesi, con il sostegno americano, sono intervenuti contro questa aporia. Ma in questo difficile contesto come sta messo il nostro paese, cioè l’Italia, che nonostante i trascorsi coloniali aveva realizzato un ottimo rapporto con la Libia gheddafiana? Come andrà a finire l’Eni quando la guerra di Francia, Gran Bretagna e Usa sarà conclusa?

Troppi sono gli interrogativi ai quali è difficile rispondere, ma viene il dubbio che siamo a una rinascita del famoso imperialismo: Francia e Gran Bretagna, con alle spalle gli Usa sono, pur nella recente globalizzazione, le potenze imperiali, per le quali di fronte ai guai del nucleare il petrolio diventa il prodotto massimamente imperiale. La Libia di Gheddafi era stata una irregolarità da sopportare, ma non da accettare. Ora questa irregolarità non è più accettabile. La ribellione, motivata, di buona parte della popolazione libica diventa un’ottima occasione per chiudere la parentesi gheddafiana e il petrolio dato a quelli che promettono la costruzione di una lunghissima autostrada, erede della via Balbia, che avrebbe dovuto sostanziare l’unità di un paese con molte diversità. Non sappiamo come si regolerà tra i potenti la sconfitta di Gheddafi, ma una cosa almeno per noi italiani sembra certa: dopo cento anni dalla conquista della Libia (Giolitti presidente del consiglio) l’Eni rischia di essere messo fuori o, almeno, di non godere più degli attuali privilegi. Siamo al punto nel quale forse dovremo rimpiangere Gheddafi.

 

Valentino Parlato    il manifesto  20 marzo 2011

 

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