Se un giorno decidessimo di dettare le nostre memorie ad un figlio o a un amico e volessimo intitolare questo lavoro “ Quel che vidi e quel che intesi”, sarebbe interessante vedere cosa scriverebbe la maggior parte di noi, figli di quest’epoca grigia e omologata all’ideologia del consumo e del benessere. Cosa abbiamo visto e udito nei nostri anni di vita che valga la pena di raccontare ai posteri? Quali esperienze vitali e ricche di valori umani avremmo da lasciare in eredità perché, chi viene dopo di noi, ne possa trarre forza e stimolo per una vita ricca di senso e impegnata? Ce lo siamo domandati quando nel nostro peregrinare per Roma alla ricerca dei luoghi e dei ricordi della Repubblica Romana del 1849, di quella straordinaria esperienza, siamo arrivati, una domenica di marzo, in piazza san Francesco d’Assisi, in Trastevere.
Qui c’è la chiesa di S. Francesco a Ripa costruita su un antico “hospitale” del IX secolo dedicato a San Biagio, dove dimorò più volte san Francesco nei suoi viaggi a Roma a partire dal 1209 e che divenne il primo convento francescano di Roma a partire dal 1229. Qui intorno ci sono i ricordi di una grande amica e protettrice di Francesco, Jacopa dei Normanni, poi Frangipane, più nota come Jacopa dei Sette Soli: donna di grande forza e sensibilità che diverrà seguace di Francesco, lo aiuterà e gli rimarrà vicino fino alla sua morte, nel 1226. Francesco la stimava a tal punto da chiamarla “frate Jacopa” che, per quel tempo e per come venivano considerate le donne, significava un grande riconoscimento del suo impegno e del suo valore. E’ sepolta con Francesco ad Assisi. Qui operava un’altra donna straordinaria: Ludovica Albertoni, vissuta tra il 1474 e il 1533. Nobile, ricca e madre di tre figli aveva una grande sensibilità, diremmo oggi, per l’emancipazione femminile. Seppe affrontare l’ostilità dei suoi contemporanei mentre cercava di tradurre in pratica gli ideali di eguaglianza tra uomini e donne in cui credeva. In un’epoca che non riconosceva nessun diritto alle donne, rimasta vedova, s’impegnò ad accogliere in casa sua le ragazze nubile e povere, quindi senza futuro, per evitare che finissero sul marciapiede. A queste giovani insegnava a lavorare sul telaio per poter essere autonome e libere. Ludovica era veramente all’avanguardia nel suo tempo: non si limitava ad un’azione caritativa, con l’obolo per “le vergini povere”, ma forniva i mezzi perché quelle donne potessero essere capaci di sollevarsi dalla loro condizione. Lo fece soprattutto dopo il terribile Sacco di Roma del 1527 che lasciò Roma distrutta, combattendo contro le miserie morali e materiali che invadevano la città. Una donna moderna per molti aspetti il cui impegno di liberazione sarà “inglobato” nella tradizione religiosa cattolica, che gli attribuirà estasi e levitazioni cosicchè il suo impegno sociale passerà in second’ordine. Fatta beata nel 1671, Bernini dette il suo contributo perché Ludovica ritornasse ad essere una santa tradizionale: nel 1674 scolpì la straordinaria “Estasi della Beata Ludovica Albertoni”, uno dei suoi massimi capolavori, che si trova proprio nella chiesa di san Francesco a Ripa. Un’opera da ammirare certo, che ripropone ciò che Bernini aveva già espresso nel 1652 nella scultura “Estasi di santa Teresa d’Avila” , ma che non ci restituisce la bellezza di una donna che si mette a disposizione di altre donne per restituire loro dignità e autonomia. Ci piace riconoscere in questo una vera estasi mistica, più vicina alla realtà del Vangelo in cui Ludovica credeva.
Siamo sempre in piazza san Francesco: e continuiamo a domandarci cosa scriveremmo nelle nostre eventuali memorie intitolate “ Quel che vidi e quel che intesi”. Di fronte a noi c’è un palazzo un po’ anonimo, settecentesco. Palazzo Costa. Una lapide ci ricorda che lì è nato e vissuto Giovanni Costa, detto Nino ( 1826-1903). Sappiamo che Nino Costa fu un grande esponente della pittura romana dell’Ottocento e che contribuì a diffondere il naturalismo nel movimento pittorico dei macchiaioli. Un pittore apprezzato molto in Inghilterra e nel resto d’Europa. Un pittore importante, insomma.
Ma poi ci ricordiamo che dal 1892 cominciò a dettare le sue memorie ad una figlia, Giorgia. Poi s’interruppe e riprese qualche anno dopo quando consegnò altri appunti ad una sua amica, Olivia Rossetti Agresti, che, nel 1904 dopo la morte di Nino, pubblicò a Londra in un libro intitolato: Giovanni Costa, His life, work and times. Nel 1927 Giorgia Costa riprese ciò che gli aveva dettato il padre e altri appunti dati all’Agresti e pubblicò le memorie del padre con il titolo: Quel che vidi e quel che intesi. Ah! Ecco.
Cosa racconterebbe di aver visto e udito un uomo come Nino che fu un grande pittore ma, prima di tutto, un grande garibaldino, amico personale di Garibaldi e discepolo di Mazzini; che partecipò alla vita della Repubblica Romana del 1849 come amministratore e la difese; che partecipò alle campagne garibaldine del 1859; che si attivò per “cospirare” a Roma, tra il 1864 e il 1867, e contribuire alla preparazione della spedizione di Garibaldi per liberare Roma, che terminerà nelle tragiche battaglie di Monterotondo e Mentana del 1867; che fu vicino a Garibaldi nelle drammatiche ore seguenti a quelle sconfitte e lo accompagnò fino a quando il Generale venne arrestato dagli Italiani (!); che nel luglio del 1870 s’introdusse ancora nei confini dello stato pontificio, vivendo come “ un bandito” nella Campagna Romana per preparare i Romani ad accogliere le truppe piemontesi che di lì a poco sarebbero arrivate di fronte a Porta Pia; che il fatidico 20 settembre partecipò all’assalto della Breccia, tra fucilate e cannonate, entrando con le truppe del generale Cadorna; che per due giorni s’installò al Campidoglio e con altri due amici si pose alla guida provvisoria del municipio, con un triumvirato che si ricollegava a quello di Mazzini, Armellini e Saffi del 1849; che estromesso il 23 settembre da Cadorna , che impose una giunta amministrativa composta di nobili, divenne, poi comunque, consigliere e per anni si occupò della statalizzazione delle numerose scuole religiose di Roma; che fino alla sua morte si pose come coscienza critica con numerosi interventi pubblici perché non si perdessero i valori che avevano spinto all’Unità d’Italia proprio mentre, invece, si perdevano totalmente.
Cosa racconterebbe un uomo del genere che vide la presenza del Quartier generale Garibaldino durante i mesi della Repubblica Romana in questo palazzo Costa, il suo, che è qui davanti a noi?
Cosa ci direbbe di aver udito e visto un uomo ricco di modestia e di dedizione alla causa patriottica, che fu un grande pittore, ma soprattutto uno degli uomini che fecero l’Italia? Un uomo che non ricevendo nessun riconoscimento dall’Italia di Cavour e Vittorio Emanuele, scrive nelle sue memorie” Io né mai avea ricercate, né mai ambite pubbliche cariche. E poi, Roma era libera e ricongiunta all’Italia. L’ardente brama di tutta la mia vita era soddisfatta.”
Ci racconterebbe di una vita con degli ideali, con qualcosa per cui lottare, di un’esistenza non relegata solo nel puro sopravvivere il meglio possibile. Ci racconterebbe di un’epoca ricca di contraddizioni, entusiasmi, sogni ed anche durezze e difficile, ma non di un’epoca becera,stupidamente violenta e mediocre come la nostra. Un’epoca in cui essere almeno un po’ contenti di esserci nati. Come scrisse Garibaldi ad Anita, mentre era impegnato nella drammatica difesa della Repubblica Romana:
“Noi combattiamo sul Gianicolo, e questo popolo è degno della passata grandezza. Qui! si vive, si muore, si sopportano le amputazioni al grido di Viva la repubblica. Un’ora della nostra vita in Roma vale un secolo di vita!! Felice mia madre d’avermi partorito in un’epoca così bella per l’Italia.” (21 giugno 1849)
Siamo in questa piazza di Trastevere, un po’ isolata, tranquilla. Pensiamo a Francesco, un uomo che credeva semplicente nel Vangelo. Nell’aria c’è la presenza di due donne coraggiose e intelligenti, Jacopa e Ludovica, che, in epoche diverse, agivano qui intorno credendo semplicemente nel Vangelo. C’è un palazzo e il ricordo di un uomo, un pittore, un garibaldino che l’abitava e che credeva semplicemente in qualcosa, in una Patria vera, e ci ha creduto tutta la vita, vissuta in un’epoca in cui c’era vita. Per cui avrebbe veramente da raccontarci cosa intese e vide. Come Jacopa. Come Ludovica.
“ Spettatore di grandi avvenimenti del Risorgimento italiano, non sono mai salito sul palcoscenico, né fra le quinte a veder come gli attori si truccavano a far la loro parte. Ma,restando in platea, d’un salto io entravo fra gli attori per far la parte che vedevo mancare. E non ho mai applicato all’orecchio la tromba, per udire chi non sapeva, o non voleva, farsi intendere.” ( N. Costa)
Io non saprei cosa raccontare, invece. E voi? Cosa udite e vedete che valga la pena scrivere in un libro di memorie? E che parte fate?
vedi: LA SANTA E IL GARIBALDINO