Neppure l’oppositore più prevenuto avrebbe potuto attribuire a Berlusconi le parole che ha realmente pronunciato presentando il suo progetto sulla giustizia: con questa legge – ha detto – non vi sarebbero mai state le indagini di Mani pulite. In altri termini, non sarebbe mai stato rivelato ai cittadini il degrado etico-politico che ha portato all’agonia e al tracollo della “Prima Repubblica”. Il premier ha aggiunto: desidero questa legge dal 1994. Cioè dal momento in cui il suo populismo antipolitico ha potuto affermarsi sulle macerie di un sistema partitico minato dalla corruzione e incapace di rinnovarsi. Perché Berlusconi ha voluto e potuto proclamare ad altissima voce opinioni e propositi che anni fa sarebbero stati vissuti dal sentire comune del Paese come un vero e indecente vulnus? Perché, anche, ha fatto una dichiarazione di guerra così aperta alla magistratura e alla Costituzione proprio alla vigilia di processi che ha tentato di evitare in tutti i modi e con tutti i lodi possibili, entrando in ripetuto conflitto con la Corte Costituzionale e con la Presidenza della Repubblica (con Ciampi prima, e con Napolitano poi)?
Si tratta di una vera prova di forza – favorita dal dissolversi di una possibile “destra diversa” e dall’ormai cronico stato di confusione del centrosinistra – o è l’escalation di una pericolosissima debolezza? Il progetto proposto è senza dubbio una “contro-riforma incostituzionale”, come ha scritto Massimo Giannini, basata sul predominio del potere politico sul potere giudiziario, in dispregio di quell’equilibrio fra poteri che è alla base di ogni Costituzione democratica. Se avesse una maggior dimestichezza con la storia patria Berlusconi forse evocherebbe, nelle sue ville e nelle sue feste, quell’articolo dello Statuto Albertino secondo cui “la Giustizia emana dal Re ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch’Egli istituisce”. In questo scenario la riabilitazione della corruzione politica degli anni Ottanta – di questo si tratta ha il senso di un atto simbolico interamente proiettato sul presente e sul futuro. E ha trovato, al solito, incauti ed entusiasti seguaci. L’entusiasmo ha reso un pessimo servizio al direttore de “Il Giornale”, che ha iniziato un suo editoriale di damnatio della magistratura evocando addirittura il 1974 ed attaccando frontalmente l’allora magistrato Luciano Violante, reo d’aver incriminato per tentato golpe Edgardo Sogno. “Una bufala”, scrive elegantemente Sallusti. Peccato che lo stesso Sogno poco prima di morire abbia ammesso che l’accusa era pienamente fondata, e abbia affidato la sua testimonianza a un libro scritto con Aldo Cazzullo (è stato pubblicato dieci anni fa dalla Mondadori e ristampato di recente: il direttore del “Giornale” non dovrebbe avere difficoltà a procurarselo).
In quello stesso 1974 alcuni giovani pretori portavano alla luce le tangenti petrolifere e documentavano in modo inoppugnabile un salto di qualità decisivo della corruzione: non più somma di episodi ma metodo, con percentuali concordate e procedure sempre più “istituzionalizzate”. Scavò qui la talpa del degrado – non della rivoluzione, come avrebbe voluto il vecchio Marx – che portò alla crisi del “sistema dei partiti”, e gli anni Ottanta furono il decennio della sua escalation. Una escalation che era sembrata allora tanto evidente quanto inarrestabile, ampiamente documentata dai processi che progressivamente si allargarono alle più differenti parti del Paese. Era il 1984 quando un vicepresidente della Camera, di solida appartenenza democristiana, dichiarava: “Hanno reso fiorente la cultura della tangente tanto da farne la ragione di ogni attività politica”. E negli anni successivi i principali quotidiani, con parole sempre più attonite e convergenti, ebbero a segnalare appunto l’affermarsi della tangente come “taglia permanente, tassa di cittadinanza”, o di un potere “che incombe come fardello imposto alla società sotto forma di lottizzazioni e tangenti”. O, ancora, l’”incrociarsi della corruzione dall’alto e di quella dal basso”. Di fronte alla realtà che le indagini rivelavano, Norberto Bobbio scrisse che una fine così miseranda della “Prima Repubblica” era l’espressione del fallimento di tutta una nazione. Non del solo ceto politico: dell’intero Paese. L’incapacità di interrogarsi su quel nodo, la volontà di autoassolversi (un tratto non effimero della nostra storia) favorirono una rimozione profonda, e grazie ad essa fece progressivamente le sue fortune il progetto berlusconiano di imporre nuove e più solide forme di impunità.
Un progetto sempre più esplicito e sempre più condiviso all’interno del centrodestra, i cui esponenti hanno dichiarato a più riprese nell’ultimo periodo: Berlusconi non farà la fine di Craxi perché, a differenza del Psi, il Pdl farà muro. Hanno cioè dichiarato: la salvezza del premier non risiede nella sua innocenza ma nella salda omertà di un partito in cui le “cricche” sono diventate cemento e ragion d’essere. Su un punto il premier ha ragione: il rovesciamento incostituzionale che oggi vuol portare a termine è stato preparato in un lunghissimo scorrere di anni. E non sarebbe stato possibile senza gravissimi errori compiuti dal centrosinistra negli anni stessi in cui ha governato. Non fu rimosso allora il conflitto di interessi, destinato così a ingigantirsi, e – ancor di più – vi furono vistosi cedimenti di fronte ad una offensiva che si basava sugli stessi cardini del disegno di legge attuale: l’attacco alla obbligatorietà dell’azione penale e la subordinazione della magistratura al potere politico. Fu questa offensiva ad avere troppo larghi spazi nella Commissione Bicamerale, favorita dalla insipiente illusione del centrosinistra di “normalizzare” Berlusconi (e il berlusconismo). Nel momento stesso in cui affossava la Commissione il Cavaliere andò a dire a un convegno dei giovani industriali: fino a quando il potere politico non diventerà il “dominus” dell’azione giudiziaria non si potranno fare riforme in Italia (lo sottolineava con chiarezza su questo giornale Eugenio Scalfari: era il 1998). Il progetto oggi giunge a termine, e anche oggi intreccia obiettivi concreti e atti altamente simbolici: atti destinati comunque a lasciare il segno, a scavare a fondo in un terreno che è diventato sempre più friabile, perlomeno nelle stanze della politica. E il vero bersaglio, come nei recenti (o recentemente reiterati) attacchi alla scuola pubblica, è l’essenza stessa della Costituzione. Alcuni anni fa Christoper Lash osservava che nel mondo contemporaneo la democrazia corre seri rischi non tanto per intolleranza quanto per indifferenza. In Italia, oggi, non è più solo così: intolleranza e arroganza del potere non sembrano avere limiti, e solo la fine dell’indifferenza potrà porvi rimedio. Solo la difesa intransigente di principi e valori irrinunciabili.
Guido Crainz la Repubblica 14 marzo 2011
vedi: Indignatevi!