Chiedere scusa è forse il primo atto di decenza, che ci si aspetta da chi addolora, offende, tradisce. Innanzitutto è uscire da se stessi, vedere sul volto dell´altro la ferita che ho inflitto. Questo estendere lo sguardo oltre l´Io Kant lo chiama pensare ampio, oltre il circolo che disegno attornoalla mia persona. Posso aver avuto un qualche motivo nel colpire il prossimo, ma l´effetto del colpo non mi appartiene: è ormai nel corpo o nel cuore dell´altro. La giurisdizione è interamente sua. Il suo volto mi si accampa davanti e chiede qualcosa, anche se tace: specie se tace. Chiede che io guardi la ferita, e faccia due operazioni al tempo stesso: che veda dentro me stesso e che veda l´offeso nella sua integralità, non più estraneo perché una parte di me è entrata per effrazione in lui. È stato necessario un secolo cruento, perché la parola assumesse un peso in politica.
L´ultimo ventennio ha visto innumerevoli mea culpa: di Clinton e dell´Onu verso il Ruanda, del premier australiano Kevin Rudd verso gli aborigeni. E della Chiesa, in primis verso gli ebrei. La più impressionante domanda di scuse fu senza parole: d´un tratto, il 7 dicembre 1970 davanti al monumento dei caduti del ghetto di Varsavia, il cancelliere Brandt cadde in ginocchio. Ho sempre pensato che quest´attonito genuflettersi, quest´ammissione di colpe che non erano sue ma del suo popolo, sia la forma più pura del chiedere scusa: anche se personalmente sono innocente, come cittadino d´un popolo non cesserò d´essere responsabile. Chiedere scusa ha i suoi lati oscuri, anche questo conta saperlo. In Giappone le scuse si sono accumulate nel tempo (verso Cina, Corea, Birmania, Australia) ma raramente sono accolte. Gli israeliani si divisero atrocemente, quando la Germania offrì le riparazioni nel ´52. Non era, accettarle, un chiudere i conti per sempre? Chiedere scusa è nobile se non è sinonimo di discolpa. Se sul male inferto non cade una lastra come su una tomba. Se non viene seppellito (da chi si scusa) il dolore arrecato. È già moralmente storpio dire: «Mi scuso». Strauss-Kahn, parlando domenica dei fatti accaduti all´hotel di New York, non ha chiesto scusa ma forse ha fatto di più. Ha detto che la sua fu peggio di una debolezza: fu colpa morale, perché un uomo pubblico che compie simili leggerezze rompe un contratto, spreca le speranze riposte in lui.
Atti del genere sono rari in Italia, nonostante non manchino le leggerezze, o i reati veri e propri. Dopo la P2 e Tangentopoli, ad esempio, nessun erede dei partiti spazzati via dagli scandali riconobbe che gravissime colpe verso la democrazia e la fiducia degli elettori erano state commesse. Nemmeno il Pci, che si era finanziato coi soldi di una dittatura sanguinaria, l´Urss, chiese scusa. L’ assoluzione è facile in Italia: o ti autoassolvi, o ti assolve la Chiesa, o come Berlusconi ti identifichi talmente con la folla che valgono le parole del film di Fritz Lang, Furia: «La folla non pensa. Non ne ha il tempo». Non c´è lavorio puritano su di sé, né la ricerca del peccato imperdonabile mirabilmente narrata nel racconto di Nathaniel Hawthorne, Ethan Brand. Chiedere scusa si può, è un inizio che mette in cammino verso l´Altro. Ma a condizione di non esigere perdono. Lo si fa gratuitamente, in cambio di nulla. Non solo: lo si fa distinguendo tra vivi e morti. Come chiedere scusa, ai sommersi e sepolti? Solo il morto potrebbe rispondere all´appello: non può. Puoi aiutare i suoi familiari ma il perdono, davanti a una bara, te lo dai da solo. E se vogliamo andare ancora più nel profondo: nemmeno chi riceve la domanda di scuse ha speciali diritti, quando è discendente della vittima. Non diventa più scusabile di altri, se a sua volta fa del male. I suoi morti tacciono anche per lui. La scusa ha legami forti col pentimento, l´espiazione, la sete di redenzione. Anche qui intravediamo luci ma anche antri bui. Ho molto riflettuto sui mea culpa di Giovanni Paolo II, e ho trovato che c´era in essi qualcosa di grandioso ma anche di ambiguo.
Freud ha parole molto giuste sul pentimento e l´etica, quando scrive su Dostoevskij e il parricidio: «L´aspetto più aggredibile in Dostoevskij è quello etico (…) Morale è chi già reagisce alla tentazione avvertita interiormente, e ad essa non cede. Colui che prima si macchia di una colpa e poi, una volta in preda al rimorso, pone a se stesso elevati obiettivi morali, può essere accusato di fare i propri comodi. Manca in lui l´elemento essenziale della moralità, la rinuncia, essendo la condotta di vita morale un interesse pratico dell´umanità». Usiamo dire: «Il diavolo si nasconde nel dettaglio». Anche Dio, a mio parere. La richiesta di scusa è un po´ come il Dettaglio: in essa si cela Dio come pure il diavolo. Puoi lenire o straziare ancor più, sdebitandoti e andandotene lontano. Bisogna sapere di chi parli, a chi parli. E ci sono colpe di cui resterai responsabile sempre: riprendere le vecchie attività non potrai. Nessun trasformismo è trasformazione. Se la scusa diventa scambio otterrai qualcosa, magari, ma immaginerai d´aver pagato. Il taglio è voragine che non si chiude. Il tempo forse aiuterà. Ma Chronos non è etico, neanche nel mito, e già chiamarlo galantuomo è temerario. Etica è la giustizia, che mostra il volto ferito e oltrepassa l´Io. Quante volte pensiamo, quando uno muore: «Vorrei chiedergli scusa». È troppo tardi, ma il pensare ampio già comincia.
Barbara Spinelli la Repubblica 22 settembre 2011