Drammaturgo e scrittore statunitense (1911-1983)
Questo articolo complessivo è la terza parte degli articoli che trovate QUI e QUI e a cui vi rimandiamo assolutamente.
Anche questo articolo complessivo e molto articolato è un tentativo, un contributo per sfondare “il coro unanime a senso unico” della narrazione ufficiale dei giornaloni e delle televisiononi sulla tragedia del medio oriente.
Un “coro unanime a senso unico” che abbiamo già sperimentato ( e ancora sperimentiamo) per la guerra in Ucraina, per lo pseudo-vaccino, per la pseudo-crisi climatica, per la pseudo-utilità della digitalizzazione totale della vita.
“Un coro unanime a senso unico” ( diretto dall’aristocrazia finanziario-usuraia, vera padrona del mondo: leggi QUI) che la dice lunga, molto lunga sulla situazione disastrosa della democrazia e della libertà di pensiero in un Occidente che ancora continua a presentarsi come “campione” di diritti e democrazia…
Un mare d’ipocrisia in cui viviamo. Un mare d’ipocrisia.
Ma forse la migliore introduzione all’articolo complessivo di oggi è questo articolo in PDF che segue e che v’invitiamo a leggere e far circolare. Non aggiungiamo altro… (GLR)
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Benvenuti nel mondo del doppio standard
Al netto di tutto il più sincero sgomento che in questo preciso istante si può provare di fronte alla morte di innocenti civili da ambo le parti, per provare a capire davvero cosa stia accadendo a Gaza ed in Israele sarebbe necessario andare a ritroso e contestualizzare l’aspetto storico di questa annosa violenza. Un dato oggettivo colpisce subito: il doppio standard mediatico occidentale in azione. Cerchiamo di spiegarne le radici e le cause.
Sionismo e nascita di Israele
La formazione storica dello Stato di Israele non si può comprendere senza previamente analizzare un’ideologia sorta nella seconda metà del XIX secolo nell’Europa centro-orientale: il sionismo.
Fin dalle origini il sionismo è stato un movimento culturale ebraico di stampo nazionalista (poi gradualmente sviluppatosi secondo varie sfumature politiche, passando da un approccio socialista fino ad arrivare ad uno sciovinismo molto accentuato ed in parte ispirato perfino da ideali fascisteggianti) con l’obiettivo di creare un focolare nazionale giudaico in Palestina. Il nome deriva dalla denominazione di uno dei monti di Gerusalemme tradizionalmente più importanti : il Monte Sion.
Una svolta prettamente più politica al sionismo fu data da Theodor Herzl (1860 – 1904), un giornalista austro-ungarico di lingua tedesca che – persuaso dai frequenti casi di antisemitismo dell’epoca- ormai riteneva l’assimilazione ebraica in Europa un’utopia da realizzare. Autore de Lo Stato ebraico (Der Judenstaat, 1896), viene considerato il padre del sionismo moderno perché teorizzò le basi politiche per la creazione di uno Stato ebraico attraverso una programmata emigrazione di massa degli ebrei nella cosiddetta Terrasanta. Le soluzioni prospettate da Herzl erano idealmente indirizzate verso la Palestina, anche se – nel suo caso ad esempio- egli arrivò a non disdegnare posti alternativi quali l’Argentina o perfino l’Uganda.
Anteriormente alla prima guerra mondiale, il sionismo rappresentava solo una minoranza attiva di ebrei e nel 1914 in Palestina si contavano circa 90.000 persone. Allo scoppio delle ostilità, però, le azioni di due noti sionisti – Chaim Weizmann (futuro primo Presidente d’Israele) e Nahum Sokolow (futuro Presidente del Congresso Sionista Mondiale durante gli anni ‘30)- furono determinanti per ottenere dalla Gran Bretagna, attraverso la Dichiarazione Balfour (1917), la promessa per il sostegno inglese alla creazione di un focolare nazionale ebraico (national home for the Jewish people) in Medio-Oriente.
In quanto l’Impero Ottomano fu una delle potenze sconfitte, al termine del conflitto la Società delle Nazioni (antesignana dell’ONU) attraverso il Trattato di Sèvres del 1920 trasferì, in funzione anti-ottomana, la Palestina all’Impero di Re Giorgio V, creando il Mandato Britannico della Palestina. Questo perché -in precedenza- già nel 1916 era stato segretamente abbozzato tra Parigi e Londra un accordo, il Trattato Sykes-Picot, mirante a suddividere le rispettive sfere d’influenza medio-orientali una volta che Istanbul (allora capitale ottomana) sarebbe stata sconfitta.Fu così che i britannici, nel primo dopoguerrra, iniziarono a farsi attivi promotori della causa migratoria ebraica andando in tal modo a ledere tangibilmente gli interessi delle popolazioni arabe locali; nonostante -in precedenza- la Gran Bretagna avesse sollecitato e strumentalizzato le loro aspirazioni indipendentiste in chiave anti-ottomana a fini militari e strategici per tutta la durata del conflitto. Tutto ciò ebbe come conseguenza la formazione di un forte risentimento all’interno della società palestinese.
Sotto il governo britannico, dunque, l’immigrazione ebraica aumentò esponenzialmente e nel marzo 1925 la popolazione giudaica in Palestina era ufficialmente stimata a 108.000, fino a salire a circa 238.000 (il 20% della popolazione) nel 1933 ( https://www.britannica.com/topic/Zionism ).
Si può già ben delineare ed intravedere quale portata ebbe una scelta politica del genere -forzatamente dettata dall’esterno da potenze estranee- sulle popolazioni autoctone. Le conseguenze, infatti, non si fecero attendere.
La compenente araba della popolazione -intimorita dal progressivo afflusso in massa di nuove persone- iniziò ad opporsi in maniera più energica al sionismo e alla politica britannica che lo avallava. Le forze dell’ordine di Londra -sempre più alle strette- faticavano a mantenere l’ordine ed infine esplose una serie di rivolte, con atti di estrema ferocia da entrambe le parti. I moti del 1929 (durante i quali vide la luce il massacro di Hebron, con l’assassinio di quasi una settantina di ebrei), ma soprattutto La grande rivolta araba del 1936 palesarono una situazione drammatica e di latente violenza che il Regno Unito non poteva più ignorare.
Lo sforzo di reprimere la rivolta araba del 1936-1939, che fu molto più estesa e violenta rispetto alle crisi precedenti, portò infine la Gran Bretagna a rivalutare le proprie decisioni politiche. Nella speranza di mantenere una pace duratura tra gli ebrei ed i palestinesi e di riottenere il sostegno degli arabi per fini militari (così come durante il primo conflitto mondiale) per contrastare i nuovi nemici – cioè la Germania e l’Italia, alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale (1939) Londra pose restrizioni all’immigrazione ebraica, che portò alla pubblicazione del cosiddetto Terzo Libro Bianco inglese sulla politica mandataria da seguire in Palestina.
Tuttavia, le nuove limitazioni furono brutalmente contrastate dalla nascita di gruppi sionisti clandestini, come la Banda Stern e l’Irgun Zvai Leumi, che commisero atti di terrorismo ed omicidi contro gli inglesi e contro i palestinesi e pianificarono illegalmente l’immigrazione ebraica. Entrambe le organizzazioni furono realtà paramilitari estremiste, di matrice iper-nazionalista (per non dire propriamente fascista) e considerate terroriste, in un modo o nell’altro riconducibili al pensiero del sionismo revisionista di Vladimir Žabotinskij.
La Banda Stern (o Lehi, formalmente Lohamei Herut Yisraʾel, cioè “Combattenti per la libertà di Israele”), fu fondata nel 1940 da Avraham Stern (1907–42) dopo una scissione dal movimento Irgun Zvai Leumi. Visceralmente anti-britannico, Stern fondò la Lehi per staccarsi dall’Irgun, quando questo gruppo aveva deciso di unirsi all’Haganah (un’altra organizzazione sionista paramilitare, più per autodifesa che per offesa e successivamente inglobata nelle forze armate israeliane) con l’intento di affiancare i britannici nella lotta contro i nazisti. Il gruppo attaccò ripetutamente il personale britannico in Palestina e chiese persino aiuto alle potenze dell’Asse (https://www.britannica.com/topic/Zionism). Stern venne infine eliminato dalle forze dell’ordine inglesi.
Anche l’Irgun Zvai Leumi (“Organizzazione Militare Nazionale” fondata nel 1931) fu un movimento paramilitare clandestino di estrema destra e razzista. Inizialmente sostenuto da molti partiti sionisti non socialisti -in opposizione all’Haganah- divenne nel 1936 uno strumento del sionismo revisionista. L’Irgun commise atti di terrorismo contro gli inglesi, che considerava occupanti illegali, e contro i palestinesi ed era ferocemente anti-arabo. Tra le più brutali azioni che i membri di queste organizzazioni paramilitari portarono avanti contro la comunità araba dell’epoca certamente va ricordato il massacro perpetrato dalla Banda Stern e dall’Irgun a Deir Yassin (1948), durante il quale più di 100 civili arabi vennero uccisi.
E proprio il Partito Likud, di cui fa parte l’attuale premier israeliano Netanyahu, affonda le sue radici storiche (attraverso la figura di Menachem Begin, sesto premier israeliano) nel movimento sionista revisionista di Žabotinskij e nell’Irgun, una delle ali militari più radicali di questa corrente sciovinistica. Dopo la nascita di Israele, una serie di convergenze portò alla fondazione del Likud nel 1973 da parte di Begin, un ex-soldato con cittadinanza polacca ed appartenente al Secondo Corpo d’Armata Polacco al comando del generale Władysław Anders. Attraverso il corridoio persiano, il Corpo d’Armata Polacco arrivò in Palestina nel maggio 1942 sotto il comando alleato per essere equipaggiato e successivamente impiegato nel teatro bellico italiano.
Una volta giunto in Palestina, Begin -come molti altri suoi commilitoni ebrei polacchi- ottenne dal comando militare polacco un “congedo sine die” e decise di rimanere in Medio-Oriente per contribuire con la lotta armata all’instaurazione di un governo ebraico in Terrasanta, piuttosto che continuare a combattere i nazisti in Europa. Pertanto, si unì infine all’Irgun. L’esperienza bellica di questi soldati ebrei (compresa la nota Brigata ebraica/ Jewish Infantry Brigade Group in seno all’esercito britannico e reclutata tra gli ebrei già lì immigrati all’inizio del sec. XX) fu fondamentale per l’ulteriore sviluppo dell’incipiente expertise militare e strategica delle forze di combattimento ebraiche degli anni’40, che acquisirono sempre più sicurezza ed audacia di sé.
Nonostante la situazione in Palestina fosse ormai diventata endemicamente esplosiva, dall’altra parte -però- lo sterminio su larga scala degli ebrei europei da parte dei nazisti riportò la questione giudaica al centro dell’attenzione pubblica mondiale e molti dei sopravvissuti all’Olocausto si rassegnarono all’idea di cercare rifugio in Terrasanta, a detrimento del già fragile tessuto sociale palestinese e a vantaggio di un rinnovato interesse ebraico per l’ideologia sionista.
Il secondo conflitto mondiale rappresentò, pertanto, uno sciaguroso spartiacque in seno alla comunità semitica (e non), e ciò è particolarmente evidente se si analizza l’area del Medio-Oriente. I pogrom prebellici, lo nascita e lo sviluppo del sionismo, la Shoah, le successive ondate migratorie ebraiche sempre più massicce nel Mandato Britannico della Palestina a grave scapito delle popolazioni arabe locali e la conseguente nascita dello Stato di Israele (1948) sono tutti dei fattori inestricabili alla base di questa polveriera.
Fino al 1948, gli scontri avevano preso la forma di una progressiva guerriglia civile in seno alla comunità semitica -più o meno forzatamente- lì coesistente; ma la palese incapacità e la mancanza di volontà di una vera forma di mediazione tra le parti in causa da parte del governo britannico ed il il caotico ritiro delle sue unità militari fecero bruscamente precipitare gli eventi; tutto ciò nonostante si fosse già allora cercato di trovare una via d’uscita attraverso un previo Piano di partizione della Palestina (Risoluzione 181) elaborato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il quale -infine- non venne però accettato soprattutto (ma non esclusivamente) da parte araba.
Gaza post-1948
Né il Regno Unito né l’ONU riuscirono -quindi- a risolvere alle radici la controversia e questo ulteriore fiasco politico a livello interstatale infine portò nel 1948 all’unilaterale dichiarazione di indipendenza israeliana a Tel Aviv per opera di David Ben Gurion, un ardente sionista ed ex-soldato della Legione ebraica -da non confondere con la Brigata ebraica degli anni ‘40- che aveva combattuto contro l’Impero Ottomano e al fianco dei brittannici durante la prima guerra mondiale.
Terminate le ostilità, Ben Gurion era rimasto in Palestina. Il riconoscimento diplomatico quasi istantaneo -e probabilmente anche emotivo per via della guerra mondiale da poco conclusasi- sia degli Stati Uniti sia dell’Unione Sovietica non tardò ad arrivare. Come risposta a quell’evento, gli Stati arabi circostanti –Egitto, (Trans)giordania, Siria, Libano e Iraq, compartecipi alla causa della componente araba della Palestina- dichiararono guerra affinché la neonata amministrazione governativa venisse schiacciata sul nascere. Tuttavia, a causa della mancanza di un reale coordinamento sul terreno e della susseguente disastrosa conduzione delle operazioni militari nel fronte arabo, la guerra venne inaspettatamente vinta da Tel Aviv.
Le due denominazioni di questo primo aperto conflitto israelo-palestinese (1948) rispecchiano in pieno i punti di vista opposti sulla questione: Guerra d’indipendenza per gli israeliani, Al-Nakba/ La catastrofe per i palestinesi. Di conseguenza, in Siria, in Libano, in Giordania e su Gaza – la quale era andata sotto il controllo militare egiziano dopo la dipartita delle forze britanniche- si riversarono a centinaia di migliaia i primi profughi palestinesi scappati dalla guerra e cacciati dalle loro terre: si calcola all’incirca 700.000 rifugiati, che si videro per sempre negare il diritto al ritorno e ad ogni forma di riparazione per i torti subiti.
Nondimeno, nel 1967 ci fu un’altra guerra di impatto cruciale per gli equilibri nella regione: la Guerra dei sei giorni, durante la quale Israele riuscì a conquistare 1) la Striscia di Gaza e la Penisola del Sinai all’Egitto, 2) la Cisgiordania (inclusa la parte araba di Gerusalemme, cioè quella orientale) alla Giordania e 3) le Alture del Golan alla Siria.
Nel 1973 si ebbe una nuova crisi, sfociata nella cosiddetta Guerra del Kippur (dal nome della festività religiosa ebraica celebrata nel giorno in cui ebbero inizio le ostilità). Nel tentativo di riprendersi i territori precedentemente persi, l’Egitto e la Siria decisero di attaccare a sorpresa Israele, che sostanzialmente perse il controllo del Canale di Suez a favore del Cairo. Tuttavia, nonostante il Sinai fosse ritornato all’Egitto, le Alture del Golan rimasero (rimangono tuttora) in mano israeliana, ma soprattutto il nodo Gaza continuò a rimanere irrisolto, con tutte le problematiche relative ai profughi e alle loro miserevoli condizioni di vita.
Da lì in avanti, l’impegno degli Stati arabi circostanti nella loro lotta contro Israele venne arginato da una loro graduale volontà di normalizzazione nei rapporti con Tel Aviv (Egitto e Giordania in primis) ed un peso sempre più determinante nella lotta per la propria liberazione nazionale iniziò ad averlo l‘Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).
In base ai successivi accordi di Oslo del 1993 tra l’OLP di Yasser Arafat ed il governo di Yitzhak Rabin (con la mediazione degli Stati Uniti di Clinton), Israele venne ufficialmente accettata come entità politica dallo stesso Arafat, mentre il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte israeliana (e non solo) non arrivò mai. In base a quegli accordi, Gaza sarebbe dovuta essere governata dall’Autorità nazionale palestinese (ANP, una filiale dell’OLP istituita grazie ai negoziati in Norvegia per l’appunto), con la quale Tel Aviv aveva stretto un accordo.
La presenza militare israeliana nella Striscia di Gaza si è però protratta fino al 2005 quando – finalmente- sotto la crescente pressione della comunità internazionale il premier israeliano Ariel Sharon ha deciso di ritirare le forze armate d’occupazione dopo quasi quarant’anni.
Con il passare degli anni, dunque, a Gaza si è sviluppato un sentimento di disillusione e di tradimento sempre più consistente nei confronti dell’ANP, dato che il tanto agognato riconoscimento internazionale non hai mai visto la luce; in seguito, la progressiva estremizzazione degli animi dei gazesi di fronte ai sistematici crimini israeliani portati avanti nella più ipocrita e silenziosa connivenza dei Paesi occidentali ha condotto (non sorprendentemente) alla vittoria il Partito islamista Hamas durante le elezioni del 2006 a Gaza.
Di tutta risposta, nell’anno successivo (2007) in maniera del tutto unilaterale Israele ha deciso di imporre –in spregio ad ogni principio di diritto internazionale- un embargo verso la Striscia, andando in tal modo a radicalizzare ulteriormente gli animi di persone già esasperate e ridotte allo stremo sia fisicamente sia psicologicamente.
La Croce Rossa Internazionale (https://www.aljazeera.com/news/2023/10/9/is-total-gaza-blockade-a-collective-punishment-against-palestinians) e gruppi di esperti di diritti umani in seno alle Nazioni Unite (https://www.reuters.com/article/us-un-gaza-rights-idUSTRE78C59R20110913) hanno più volte dichiarato illegale l’embargo; organi di stampa indipendenti ed organizzazioni non governative come Human Rights Watch (https://www.hrw.org/news/2022/06/14/gaza-israels-open-air-prison-15) ed Amnesty International hanno definito Gaza una prigione a cielo aperto e descritto lo Stato israeliano come un Paese esplicitamente fondato sull’ (https://www.amnesty.org/en/latest/news/2022/02/israels-apartheid-against-palestinians-a-cruel-system-of-domination-and-a-crime-against-humanity/).
Attualmente, la Palestina è riconosciuta da 138 dei 193 Stati membri dell’ ONU, con la clamorosa eccezione dei più importanti Paesi europei (Francia, Germania, Italia, Regno Unito), degli Stati Uniti, del Canada, dell’Australia e del Giappone. I palestinesi rivendicano la loro sovranità su un’area divisa in tre principali territori, peraltro discontinui tra di loro: 1) Gerusalemme est come capitale designata de iure, 2) la Cisgiordania (con Ramallah divenuta de facto capitale), e 3) Gaza. Allo stato presente, tuttavia, a seguito della Guerra dei sei giorni del 1967 la Palestina è per gran parte occupata da Israele.
• Gerusalemme est è de facto sotto il controllo israeliano;
• la Cisgiordania è divisa tra alcune zone sotto l’amminisrazione di Tel Aviv ed altre facenti capo all’ANP (l’attuale Presidente è Maḥmūd Abbās): l’area A è sotto effettivo controllo del governo palestinese; l’area B sotto il congiunto controllo israelo-palestinese; l’area C (la porzione più grande) è sotto il totale controllo governativo israeliano ed è un territorio sotto legge marziale, nel quale i pochi palestinesi presenti vengono giudicati dai tribunali militari, mentre gli ebrei da quelli civili.
In ebraico la Cisgiordania è vista come il settimo distretto nazionale (non riconosciuto però come territorio israeliano da nessuna nazione al mondo) ed è conosciuta con il nome di Giudea e Samaria; una denominazione fortemente contestata dai palestinesi, in quanto è considerata dall’ONU e dalla Corte Internazionale di Giustizia come territorio palestinese occupato. In Cisgiordania ci sono decine di colonie illegali che Israele mantiene in vita e che sono ritenute il principale ostacolo a una pace duratura fra gli israeliani ed i palestinesi e che sono spesso al centro delle violenze e delle tensioni che coinvolgono ciclicamente questo pezzo di mondo ( https://www.ilpost.it/2023/01/30/colonie-israeliane-cisgiordania/ ).
È facile intuire come il presente governo di destra di Netanyahu (spostato su posizioni esplicitamente razziste) sia un esecutivo che finora non si è mai fatto nessun problema a promuovere attivamente questo tipo di colonie, illegali dal punto di vista del diritto internazionale; in tal modo alimentando ulteriormente angoscia ed un crescente malcontento tra i palestinesi. A guardare i membri dell’attuale gabinetto di Netanyahu, infatti, il timore è più che fondato: di recente, il caso più eclatante è rappresentato dalle parole del ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich (leader del Partito Sionista Religioso), il quale di recente ha apertamente ammesso di essere “un fascista omofobo” ma di “non lapidare i gay“. ( https://www.haaretz.com/israel-news/2023-01-16/ty-article/.premium/israels-far-right-finance-minister-im-a-fascist-homophobe-but-i-wont-stone-gays/00000185-b921-de59-a98f-ff7f47c70000 ).
• Gaza, solo dopo il ritiro dei soldati israeliani nel 2005, è passata finalmente sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Tuttavia, come precdentemente analizzato, in seguito alle elezioni legislative del 2006 Gaza è controllata da Hamas (che in ultima analisi attua in grande autonomia da Ramallah). Le Nazioni Unite, le organizzazioni internazionali per i diritti umani, e la maggioranza dei governi e dei giuristi considerano il territorio ancora occupato da Israele, che mantiene sulla Striscia un blocco. Israele controlla lo spazio aereo e marittimo della striscia, sei dei sette attraversamenti della frontiera terrestre e il movimento di merci e persone dentro e fuori dalla striscia ( https://www.ilmessaggero.it/t/gaza ).
Pertanto, riassumendo e cercando di fare uno speculare salto logico per mettersi nei panni dei palestinesi ed avere una visione più imparziale e più veritiera della situazione, si può a ragione affermare che non è un caso che proprio gli abitanti di Gaza si siano gradualmente avvicinati ad un Partito radicale e fondamentalista come Hamas, che fa della religione una sua componente culturale ed identitaria irrinunciabile ed in aperta contrapposizione a Tel Aviv e al sionismo.
Dato il contesto di partenza e sebbene ln una striscia di terra così artificialmente sovrappopolata (2.1 milioni di persone – inclusi 1.7 milioni di rifugiati- su un’area di 365 km² https://www.unrwa.org/where-we-work/gaza-strip), nondimeno la faziosità della sfera politica occidentale è diventata sempre più lampante; e la nostra propaganda, a suo modo, ci tempesta di subdole notizie con latenti griglie interpretative già preconfezionate.
A mio avviso, uno dei recentissimi capolavori propagandistici più spudorati ed incentrati sulla strumentalizzazione dei diritti umani in base alle convenienze geopolitiche è stato quello di vedere la sagoma della bandiera israeliana colorare alcuni degli edifici europei più emblematici.
Infatti, solo così si può legittimare agli occhi dell’opinione pubblica la comoda, ma mistificatoria, narrazione – con il strategico ausilio dei media- dell’esistenza di una parte del mondo civile occidentale e “democratico” che è posta di fronte alle vitali sfide incarnate dall’altra parte del globo intrinsecamente antidemocratico e dedito alla violenza. Una visione delle cose che si materializza, così, in maniera spontanea nell’analisi ideologica e concettuale della stragrande maggioranza delle persone in Occidente.
Eppure , simmetricamente, Israele non ha nulla da invidiare al Sudafrica dell’ apartheid o agli Stati Uniti di pochi decenni fa e nei quali vigeva la segregazione razziale; solo per fare alcuni noti esempi. Ciononostante, non si sono mai viste bandiere palestinesi in giro per l’Europa sugli edifici pubblici quando a soffrire e a morire ingiustamente per mano dell’esercito israeliano erano donne, vecchi e bambini palestinesi. Come se le loro vite contassero di meno, in base al processo mediatico di disumanizzazione del nemico.
Di conseguenza -alla luce di quanto finora approfondito- la domanda da porsi dovrebbe essere: ci si poteva seriamente aspettare quiete e passività da una fetta di popolazione da tempo messa con le spalle al muro e con gli animi lacerati fino all’estremo, soprattutto per quanto riguarda i civili che vivono a Gaza?
Ma i video dei palestinesi umiliati, delle loro case distrutte, dei loro diritti quotidianamente profanati, dei sistematici soprusi da parte dei coloni provenienti dagli insediamenti illegali oppure da parte delle forze di occupazione israeliana fanno meno scalpore, perché far passare l’idea che i palestinesi siano tutti terroristi è più conveniente.
Benvenuti nel mondo del doppio standard : carnefici di serie A e di serie B e, specularmente, vittime di serie A e di serie B.
Patrizio Digeva, https://www.lafionda.org/ 16/10/2023
Dottorando in International Relations and Politics a Shanghai.
IL PROGETTO DEL “GRANDE ISRAELE”
Le politiche espansionistiche dello Stato di Israele, inclusa l’annessione dei territori occupati illegalmente, per non parlare del progetto di estensione territoriale del “Grande Israele” sono parte integrante dell’agenda militare guidata dagli Stati Uniti in Medio Oriente.
Se visti nel contesto attuale, l’assedio di Gaza e il Piano sionista per il Medio Oriente sono legati all’agenda militare USA-NATO, inclusa l’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti nel 2003, la guerra al Libano del 2006, la guerra alla Libia del 2011, le guerre in corso contro Siria, Iraq e Yemen.
Esiste un programma più ampio di crimini di guerra USA-NATO-Israele sotto la spinta della cosiddetta “Guerra Globale al Terrorismo” che serve come pretesto per il bombardamento di civili con il pretesto di dare la caccia all’ISIS-Daesh.
Il progetto del “Grande Israele” consiste nell’indebolire e infine fratturare gli stati arabi vicini come parte di un progetto espansionista USA-Israele, con il sostegno della NATO e dell’Arabia Saudita. A questo proposito, il riavvicinamento saudita-israeliano è dal punto di vista di Netanyahu un mezzo per espandere le sfere di influenza di Israele in Medio Oriente e per affrontare l’Iran. Inutile dire che il progetto del “Grande Israele” è coerente con il disegno imperiale americano.
Il Grande Israele creerebbe una serie di Stati delegati. Comprenderebbe parti del Libano, della Giordania, della Siria, del Sinai, nonché parti dell’Iraq e dell’Arabia Saudita. Secondo Mahdi Darius Nazemroaya in un articolo di Global Research del 2011, il Piano Yinon per la Grande Israele dovrebbe essere visto come una continuazione del progetto coloniale britannico in Medio Oriente:
“[Il piano Yinon] è un piano strategico israeliano per garantire la superiorità regionale israeliana. Insiste e stabilisce che Israele debba riconfigurare il suo ambiente geopolitico attraverso la balcanizzazione degli stati arabi circostanti in stati più piccoli e più deboli”.
Il “Grande Israele” richiede la frammentazione degli Stati arabi esistenti in piccoli Stati.
“Il piano [Piano Yinon] opera su due premesse essenziali. Per sopravvivere, Israele deve 1) diventare una potenza regionale imperiale e 2) deve effettuare la divisione dell’intera area in piccoli stati attraverso la dissoluzione di tutti gli stati arabi esistenti. Il piccolo qui dipenderà dalla composizione etnica o settaria di ciascuno stato. Di conseguenza, la speranza sionista è che gli stati a base settaria diventino i satelliti di Israele e, ironicamente, la sua fonte di legittimazione morale… Questa non è un’idea nuova, né emerge per la prima volta nel pensiero strategico sionista. In effetti, la frammentazione di tutti gli stati arabi in unità più piccole è stato un tema ricorrente”.
Viste in questo contesto, le guerre condotte dagli Stati Uniti e dalla NATO contro la Siria e l’Iraq fanno parte del processo di espansione territoriale israeliana.
……..
Prof. Michel Chossudovsky, https://www.globalresearch.ca/ 14/10/2023
Michel Chossudovsky è un autore pluripremiato, professore emerito di economia all’Università di Ottawa, fondatore e direttore del Centro di ricerca sulla globalizzazione (CRG), Montreal, redattore di Global Research.
Link: https://www.globalresearch.ca/the-criminalization-of-war-gaza/5646786
I PALESTINESI PARLANO IL LINGUAGGIO DELLA VIOLENZA IMPARATO DA ISRAELE
Le sparatorie indiscriminate condotte da Hamas e altre organizzazioni di resistenza palestinesi contro civili israeliani, il rapimento di civili, le salve di razzi su Israele, gli attacchi con droni su diversi obiettivi, dai carri armati alle postazioni di fuoco automatizzate, sono il consueto linguaggio usato dall’occupante israeliano.
Israele aveva usato con i palestinesi questo linguaggio di violenza intriso di sangue fin da quando le milizie sioniste avevano conquistato più del 78% del territorio che costituisce la Palestina stessa, distruggendo circa 530 villaggi e città, e uccidendo circa 15.000 palestinesi in più di 70 massacri. Tra il 1947 e il 1949, circa 750.000 palestinesi avevano subito un’operazione di pulizia etnica finalizzata alla creazione dello Stato di Israele, avvenuta nel 1948
La risposta di Israele a queste incursioni armate sarà un attacco genocida su Gaza. Per ogni israeliano caduto, Israele ucciderà dozzine di palestinesi. Centinaia di palestinesi hanno già perso la vita durante le incursioni aeree israeliane susseguitesi al lancio dell’“Operazione Al-Aqsa Flood” iniziata sabato mattina e che ha provocato la morte di 700 cittadini israeliani.
Domenica il primo ministro Netanyahu ha intimato ai palestinesi residenti nella Striscia di Gaza di “andarsene immediatamente”, perché Israele “ridurrà in macerie tutti i rifugi in cui si nasconde Hamas”.
Ma dove dovrebbero mai andare i palestinesi di Gaza? Sia Israele che l’Egitto hanno chiuso i confini terrestri. Non esiste alcuna via di uscita aerea né marittima, in quanto tutto è sotto il controllo di Israele.
La punizione collettiva di persone innocenti è una tattica usualmente impiegata dai regimi coloniali. Era stata attuata contro i nativi americani e poi nelle Filippine e in Vietnam. I tedeschi si erano comportati allo stesso modo in Namibia con gli Herero e i Namaqua. Gli inglesi in Kenya e Malesia, i nazisti nelle aree occupate dell’Unione Sovietica, nell’Europa centrale e orientale. Israele segue lo stesso schema. Morte per morte. Atrocità per atrocità. Ma è sempre l’occupante che dà inizio a questa macabra danza, ricambiando poi i mucchi di cadaveri con mucchi di cadaveri ancora più alti.
Non è questione di giustificare i crimini di guerra di nessuna delle due fazioni, né di provare gioia per gli attentati. Ho visto una tale quantità di violenza nei territori occupati da Israele, dove ho seguito il conflitto per sette anni, da detestarla.
Ma questo è il consueto epilogo di tutti i progetti coloniali. I regimi che fanno leva e insistono sull’uso della violenza, generano violenza. Si pensi alla guerra per la liberazione di Haiti, ai Mau Mau in Kenia, all’African National Congress in Sud Africa. Queste rivolte non sempre vanno a buon fine ma seguono uno schema ricorrente. In ogni caso, a norma del diritto internazionale, i palestinesi hanno il diritto di ricorrere alla resistenza armata, come qualsiasi popolo colonizzato.
Israele non ha mai mostrato alcun interesse a giungere ad un’intesa equa con i palestinesi. Ha costruito uno stato di apartheid, ha progressivamente annesso zone sempre più estese di territorio palestinese e ha attuato una lenta campagna di pulizia etnica, poi, nel 2007, ha trasformato Gaza nella più grande prigione a cielo aperto del mondo.
E cosa mai si aspettano Israele e la comunità mondiale? Come è possibile intrappolare 2,3 milioni di persone a Gaza, metà delle quali disoccupate, in una delle zone più densamente popolate del pianeta per 16 anni, ridurre la vita dei suoi residenti, metà dei quali sono bambini, ad un livello di sussistenza, privarli delle cure mediche di base, cibo, acqua ed elettricità, utilizzare cacciabombardieri, artiglieria, unità meccanizzate, missili, cannoni navali e unità di fanteria per massacrare a caso civili disarmati, senza aspettarsi una reazione violenta? In queste ore Israele sta effettuando ondate di attacchi aerei su Gaza, pianificando un’invasione di terra e ha tagliato l’elettricità, che solitamente viene erogata solo da due a quattro ore al giorno.
Molti dei combattenti della resistenza che infiltratisi in Israele sapevano certamente che sarebbero stati uccisi. Ma, come i combattenti della resistenza in altre guerre di liberazione, hanno deciso che, se non potevano scegliere come vivere, avrebbero scelto come morire.
Sono stato intimo amico di Alina Margolis-Edelman che aveva preso parte alla resistenza armata durante rivolta del ghetto di Varsavia durante la Seconda Guerra Mondiale. Suo marito, Marek Edelman, era il vice comandante della rivolta e l’unico leader sopravvissuto alla guerra. I nazisti avevano segregato 400.000 ebrei polacchi nel ghetto di Varsavia. Gli ebrei intrappolati morivano a migliaia di fame, malattie e violenza indiscriminata. Quando i nazisti avevano iniziato a deportare gli ebrei rimasti nei campi di sterminio, i combattenti della resistenza avevano reagito. Nessuno aveva la ragionevole speranza che sarebbe sopravvissuto.
Edelman, dopo la guerra, aveva condannato il Sionismo come ideologia razzista utilizzata per giustificare il furto della terra palestinese. Si era schierato dalla parte dei palestinesi, aveva sostenuto la loro resistenza armata e si era incontrato spesso con i leader palestinesi.
Aveva anche tuonato contro l’appropriazione dell’Olocausto da parte di Israele come giustificazione della repressione del popolo palestinese.
Così, Israele, mentre si nutriva della mitologia della rivolta del ghetto, trattava come un paria l’unico leader della rivolta sopravvissuto, che si era sempre rifiutato di lasciare la Polonia. Edelman sapeva che la lezione dell’Olocausto e della rivolta del ghetto non consisteva certo nel fatto che gli ebrei fossero moralmente superiori o eterne vittime. La storia, diceva Edelman, appartiene a tutti. Gli oppressi, compresi i palestinesi, avevano il diritto di lottare per l’uguaglianza, la dignità e la libertà.
“Essere ebreo significa stare sempre dalla parte degli oppressi e mai con gli oppressori” aveva detto Marek Edelman.
L’insurrezione di Varsavia ha sempre ispirato i palestinesi. I rappresentanti dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) erano soliti deporre una corona di fiori in occasione della commemorazione annuale della rivolta in Polonia, presso il monumento del Ghetto di Varsavia.
Più il colonizzatore fa uso della violenza per sottomettere gli occupati, più si trasforma in un mostro. L’attuale governo di Israele è composto da estremisti ebrei, fanatici sionisti e bigotti religiosi che stanno smantellando la democrazia israeliana e che chiedono la totale espulsione o addirittura l’uccisione dei palestinesi, compresi quelli che vivono in Israele.
Il filosofo israeliano Yeshayahu Leibowitz, che Isiah Berlin aveva definito “la coscienza di Israele”, aveva avvertito che, se Israele non avesse separato Chiesa e Stato, avrebbe dato origine ad un rabbinato corrotto che avrebbe trasformato l’ebraismo in un culto fascista.
“Il nazionalismo religioso sta alla religione come il nazionalsocialismo sta al socialismo”, aveva affermato Leibowitz, morto nel 1994.
Aveva compreso che la cieca venerazione dell’esercito, soprattutto dopo la guerra del 1967 e la successiva conquista del Sinai egiziano, di Gaza, della Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est) e delle alture del Golan in Siria, era pericolosa e avrebbe portato alla distruzione definitiva di Israele, insieme a qualsiasi speranza di democrazia.
Suo è il monito: “La nostra situazione peggiorerà fino a diventare quella di un secondo Vietnam, una guerra in costante escalation senza prospettiva di una soluzione definitiva”.
Aveva previsto che “gli arabi avrebbero costituito il proletariato e gli ebrei sarebbero stati gli amministratori, gli ispettori, i funzionari e i poliziotti – soprattutto la polizia segreta. Uno stato che governa una popolazione ostile composta da 1,5 a 2 milioni di stranieri non può che diventare uno stato di polizia, con tutto ciò che ciò implica per l’istruzione, la libertà di parola e le istituzioni democratiche. La corruzione caratteristica di ogni regime coloniale avrebbe prevalso anche nello Stato di Israele. L’amministrazione avrebbe dovuto da un lato reprimere l’insurrezione araba e dall’altro fare incetta di collaborazionisti arabi. Vi sono anche buone ragioni per temere che le Forze di difesa israeliane, che finora sono state un esercito popolare, degenerino, trasformandosi in esercito di occupazione, e che i suoi comandanti, che diventeranno governatori militari, assomiglino ai loro colleghi di altri regimi”.
Aveva anche previsto che l’occupazione prolungata dei territori palestinesi avrebbe inevitabilmente generato “campi di concentramento”.
“Israele”, aveva detto, “non meriterebbe di esistere, e non sarebbe il caso di preservarlo”.
La prossima fase di questa lotta sarà una enorme campagna di massacri su scala industriale a Gaza da parte di Israele, che è già iniziata. Israele è convinto che maggiori livelli di violenza finiranno per schiacciare le ambizioni dei palestinesi.
Israele si sbaglia. Il terrore che Israele infligge è lo stesso terrore che otterrà in cambio.
Chris Hedges, scheerpost.com, 8/10/2023
Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per 15 anni per il New York Times, periodo in cui è stato capo ufficio per il Medio Oriente e capo ufficio per i Balcani. In precedenza aveva lavorato all’estero per il Dallas Morning News, il Christian Science Monitor e la NPR. È il conduttore del programma “The Chris Hedges Report.”
Ostaggi: imparare da Israele
Sono iniziate le lacrime di coccodrillo sugli ostaggi israeliani presi dai militanti di Gaza. Ma Israele tiene in ostaggio da quasi 20 anni 2,1 milioni di abitanti di Gaza, tra cui un milione di bambini, in una delle aree più densamente popolate del pianeta.
In effetti, Israele è stato l’unico paese al mondo ad aver legalizzato la presa di ostaggi. Il venerato presidente dell’Alta Corte israeliana Aharon Barak ha affermato nel 1997 che “una detenzione è legale se è progettata per promuovere la sicurezza dello stato, anche se il pericolo per la sicurezza dello stato non proviene dai detenuti stessi“, e che “la detenzione… per i “Lo scopo del rilascio di… soldati catturati e dispersi è di vitale interesse per lo Stato.” (La decisione non è stata revocata fino al 2000.)
Se il passato può insegnarci qualcosa, la leadership di Gaza scambierà gli israeliani con alcuni dei 4.500 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane per presunti “motivi di sicurezza”. Gaza sta solo seguendo le regole scritte da Israele.
“Tutto il coro di calunnie che il Partito dell’ordine non manca mai di elevare, nelle sue orge di sangue, contro le sue vittime, prova soltanto che il borghese dei nostri giorni si considera il legittimo successore dell’antico barone, che pensava ad ogni arma nelle sue mani giuste contro il plebeo, mentre nelle mani del plebeo un’arma di qualsiasi tipo costituiva di per sé un crimine.”
Karl Marx, La guerra civile in Francia
Norman Finkelstein, https://www.vocidallastrada.org/ 15/10/2023
Storico e politologo statunitense
Ilan Pappè: Cari amici israeliani, ecco perché sostengo i palestinesi
Non è sempre facile attenersi alla propria bussola morale, ma se punta a nord – verso la decolonizzazione e la liberazione – allora molto probabilmente ci guiderà attraverso la nebbia della propaganda velenosa.
È difficile mantenere la propria bussola morale quando la società a cui appartieni – sia i leader che i media - prende una posizione di superiorità morale e si aspetta che tu condivida la loro stessa furiosa collera con cui hanno reagito agli eventi di sabato scorso, 7 ottobre.
C’è solo un modo per resistere alla tentazione di aderirvi: se ad un certo punto della tua vita tu capissi – anche come cittadino ebreo di Israele – la natura coloniale del sionismo e fossi inorridito dalle sue politiche contro la popolazione indigena della Palestina.
Se avete raggiunto questa consapevolezza, allora non esiterete, anche quando i messaggi velenosi dipingeranno i palestinesi come animali, o “animali umani“.
Queste stesse persone insistono nel descrivere ciò che è avvenuto sabato scorso come un “Olocausto“, abusando così della memoria di una grande tragedia. Questi sentimenti vengono trasmessi, giorno e notte, sia dai media che dai politici israeliani.
È questa bussola morale che ha portato me, e altri nella nostra società, a sostenere il popolo palestinese in ogni modo possibile; e questo ci permette, allo stesso tempo, di ammirare il coraggio dei combattenti palestinesi che hanno preso il controllo di una dozzina di basi militari, sconfiggendo l’esercito più forte del Medio Oriente.
Inoltre, persone come me non possono non interrogarsi sul valore morale o strategico di alcune delle azioni che hanno accompagnato questa operazione.
Poiché abbiamo sempre sostenuto la decolonizzazione della Palestina, sapevamo che più fosse continuata l’oppressione israeliana, meno probabile sarebbe stata “sterile” la lotta di liberazione – come è avvenuto in ogni giusta lotta per la liberazione in passato, in qualsiasi parte del mondo. .
Ciò non significa che non dovremmo tenere d’occhio il quadro generale, nemmeno per un minuto. Il quadro è quello di un popolo colonizzato che lotta per la sopravvivenza, in un momento in cui i suoi oppressori hanno eletto un governo, determinato ad accelerare la distruzione, di fatto l’eliminazione, del popolo palestinese – o anche la sua stessa rivendicazione di essere un popolo.
Hamas doveva agire, e in fretta.
È difficile dar voce a queste contro-argomentazioni perché i media e i politici occidentali hanno accettato il discorso e la narrazione israeliana, per quanto problematica fosse. Mi chiedo quanti di coloro che hanno deciso di vestire il Parlamento di Londra e la Torre Eiffel a Parigi con i colori della bandiera israeliana, capiscono veramente come questo gesto, apparentemente simbolico, viene interpretato in Israele.
Anche i sionisti liberali, con un minimo di decenza, leggono questo atto come un’assoluzione totale da tutti i crimini che gli israeliani hanno commesso contro il popolo palestinese dal 1948; e quindi, come carta bianca per continuare il genocidio che Israele sta ora perpetrando contro il popolo di Gaza.
Per fortuna ci sono state anche diverse reazioni agli avvenimenti accaduti negli ultimi giorni. Come in passato, ampi settori della società civile occidentale non si lasciano facilmente ingannare da questa ipocrisia, già manifesta nel caso dell’Ucraina.
Molti sanno che dal giugno 1967 un milione di palestinesi sono stati incarcerati almeno una volta nella loro vita. E con la reclusione arrivano anche gli abusi, la tortura e la detenzione permanente senza processo.
Queste stesse persone conoscono anche l’orribile realtà che Israele ha creato nella Striscia di Gaza quando ha sigillato la regione, imponendo un assedio ermetico, a partire dal 2007, accompagnato dall’incessante uccisione di bambini nella Cisgiordania occupata. Questa violenza non è un fenomeno nuovo, poiché è stata il volto permanente del sionismo sin dalla fondazione di Israele nel 1948.
Proprio a causa di questa società civile, miei cari amici israeliani, il vostro governo e i vostri media alla fine verranno smentiti, poiché non saranno in grado di rivendicare il ruolo di vittime, ricevere sostegno incondizionato e farla franca con i loro crimini.
Alla fine, il quadro generale emergerà, nonostante i media occidentali intrinsecamente parziali.
La grande domanda, tuttavia, è questa: anche voi, amici israeliani, sarete in grado di vedere chiaramente questo stesso quadro generale? Nonostante anni di indottrinamento e ingegneria sociale?
E cosa non meno importante, sarete in grado di imparare l’altra importante lezione – che può essere appresa dagli eventi recenti – che la sola forza non può trovare l’equilibrio tra un regime giusto da un lato e un progetto politico immorale dall’altro?
Ma c’è un’alternativa. Infatti ce n’è sempre stata una:
Una Palestina de-sionizzata, liberata e democratica dal fiume al mare; una Palestina che accoglierà nuovamente i rifugiati e costruirà una società che non discrimini sulla base della cultura, della religione o dell’etnia.
Questo nuovo Stato si attiverebbe per correggere, il più possibile, i mali passati, in termini di disuguaglianza economica, furto di proprietà e negazione dei diritti. Ciò potrebbe annunciare una nuova alba per l’intero Medio Oriente.
Non è sempre facile attenersi alla propria bussola morale, ma se punta a nord – verso la decolonizzazione e la liberazione – allora molto probabilmente ci guiderà attraverso la nebbia della propaganda velenosa, delle politiche ipocrite e della disumanità, spesso perpetrate in nome dei ‘nostri comuni valori occidentali”.
Ilan Pappè, https://www.palestinechronicle.com/, 10/10/2023
Link: https://www.palestinechronicle.com/my-israeli-friends-this-is-why-i-support-palestinians-ilan-pappe/
Ilan Pappé è professore all’Università di Exeter. In precedenza è stato docente senior di scienze politiche presso l’Università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina, Il Medio Oriente moderno, Una storia della Palestina moderna: una terra, due popoli e dieci miti su Israele. Pappé è descritto come uno dei “nuovi storici” israeliani che, dalla pubblicazione di pertinenti documenti del governo britannico e israeliano all’inizio degli anni ’80, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.
Pensiero unico alla Farnesina
Il Ministero Affari Esteri ha una rassegna stampa. Tutti immagineremmo che in essa siano inclusi gli articoli di politica internazionale presenti su vari giornali indipendentemente dalla loro collocazione politica. Se Borrel giustifica la censura dei media russi con l’incredibile affermazione di voler tutelare i cittadini, poveri sprovveduti, dalle fake news, concepire una tale giustificazione per la censura al Ministero degli Esteri appare paradossale. I diplomatici dovrebbero essere in grado di discernere la propaganda dalla verità e ascoltare pensieri e posizioni differenti senza timore alcuno.
Ho fatto presente al più alto dirigente della Farnesina che mi sembrava strano la rassegna riproducesse tranne poche eccezioni soltanto gli interventi in grado di rafforzare la narrazione NATO e UE degli accadimenti odierni.
Pensavo di trovare un interlocutore, che tra l’altro conosco da trent’anni, incline a accettare osservazioni che potevano migliorare un servizio offerto ai dipendenti del Ministero. Purtroppo il collega si è molto risentito e ha opposto un muro invalicabile. I diplomatici non hanno il diritto di leggere gli articoli riprodotti sulla stampa di Mearsheimer o di Jacques Baud? Di Alberto Negri o di Tommaso di Francesco? Del Generale Mini e del professore Orsini?
La sottoscritta in effetti è stata qualche volta inclusa nella mitica rassegna ma sempre di rado. Mi dispiace per i giovani. Le migliori intelligenze e competenze entrano alla Farnesina ma in un clima del genere imparano presto a ottundere il cervello e il senso critico.
Del resto ricordo che eravamo 28 giovani volontari diplomatici, due donne e 26 uomini e seguivamo il primo anno come da prassi le lezioni all’Istituto diplomatico. Nel dibattito che si aveva dopo le lezioni c’erano di solito due gruppi. L’uno composto di giovani brillanti, curiosi e pronti alla discussione dei temi di politica internazionale, gli altri altrettanto brillanti per carità, ma silenziosi e perspicaci. Ascoltavano con poco interesse, persino annoiati, discussioni che non li coinvolgevano affatto. Avevano compreso che la carriera non aveva molto da condividere con la profondità dell’esame delle relazioni internazionali.
Erano naturalmente inclini a obbedire e a assorbire le indicazioni superiori. Indovinate chi ha fatto carriera dei due gruppi? Eppure non è stato sempre così. Ricordo un grande Direttore Generale, Luigi Vittorio Ferraris, un Ambasciatore purtroppo scomparso in grado di marcare con la sua personalità la storia della Farnesina. Era uno studioso di relazioni internazionali, un fine analista, scrittore di libri, conciliava accademia e carriera.
L’ho conosciuto personalmente e lo cito per primo. Vi potrebbero essere tanti altri esempi di grandi diplomatici in grado di riconciliare il sapere, la serietà degli studi e la carriera. Bisogna andare tuttavia indietro negli anni. Emerge come un gigante Alberto Bradanini, Ambasciatore di grado, l’ultima sua sede Pechino, un uomo colto e integro che con la sua usuale trasparenza e generosità è intervenuto più volte in mio soccorso.
Un altro grande diplomatico, Umberto Vattani, già Segretario Generale, una personalità che ha influito grandemente sulle vicende del Ministero, ha sempre messo cultura e intelligenza al servizio della carriera diplomatica. E’ stato così aperto di vedute da presentare al circolo degli esteri il mio ultimo romanzo “ Un Insolito trio”, che è anche un romanzo civile, di critica alla burocrazia del Ministero.
E che dire di Sergio Romano che si è dimesso arrivando allo scontro col potere politico, uno storico, uno scrittore in grado di affermare che la NATO avrebbe dovuto sciogliersi quando si è sciolto il patto di Varsavia? La sola ragione per cui è rimasta in piedi è per dare lavoro a una burocrazia ingorda di privilegi e capace di fabbricare un nemico nuovo da unire ai vecchi per poter far sopravvivere un sistema obsoleto. Bene se guardiamo alla situazione in Europa direi che le previsioni di Sergio Romano si sono avverate. La burocrazia della NATO è viva e vegeta, il nemico la Russia inferocito e baldanzoso, la corsa agli armamenti in una escalation senza limiti.
Il declino della odierna diplomazia italiana va di pari passo con lo stato caotico delle nostre relazioni internazionali. Sarà una coincidenza. E’ innegabile tuttavia che lede alla nostra democrazia non avere un corpo diplomatico colto e propositivo ( tranne le solite eccezioni che non fanno la differenza), in grado di interagire con la classe politica, temperandone cinismo e inesperienza, e di perseguire gli interessi dello Stato, che si identificano con il bene comune del Paese e non con il beneficio del potere politico contingente.
Il simpatico Direttore della Repubblica Molinari scrive sul suo giornale che la guerra in Ucraina difende l’architettura di sicurezza uscita dalla guerra fredda. Nessuno lo contraddice. I diplomatici abbassano la testa e ogni giorno contribuiscono a riscrivere la storia con rappresentazioni poco veritiere.
L’architettura di sicurezza uscita dalla guerra fredda è incarnata dall’OSCE, l’unica Organizzazione nella quale la Russia sedeva con i suoi vicini allo stesso tavolo con Usa, UE e membri NATO. La carta dell’OSCE sanciva l’indivisibilità della sicurezza. Nessuna alleanza può aumentare la propria sicurezza a spese di un altro Stato.
La NATO ha contraddetto la carta OSCE. La guerra della NATO alla Russia fino all’ultimo ucraino vi sembra dunque stia difendendo l’Architettura di sicurezza Europea? L’invasore non è l’unico colpevole di una guerra provocata e preparata dagli anglosassoni, come il norvegese Stoltenberg ha affermato davanti al PE, addestrando l’esercito ucraino sin dal 2014.
I diplomatici queste cose non possono non saperle. Temo che se il pensiero critico sarà spazzato via, se l’adesione alla verità fabbricata e indicata dai potenti di turno continuerà a diffondersi come avviene oggi, altre catastrofi e lutti e distruzioni come quelle vissute nel secolo ventesimo avranno luogo. Il sonno della ragione non è mai inoffensivo.
Il Professore Fabbrini, che quando ero Ambasciatrice seguivo in modo particolare perché eccellente esperto di Affari Europei, in un articolo in cui perora 4 cerchie di membri dell’UE, illustrando un rapporto franco-tedesco, scrive che è evidente che bisogna continuare a armare l’Ucraina contro l’imperialismo russo. Caro professore, ma cosa c’è di così evidente in una strategia che ha distrutto l’Ucraina e ha portato allo stallo militare sul campo? Mi può per cortesia fornire le prove dell’imperialismo russo, paragonando le basi militari russe all’estero a quelle statunitensi, comparando la potenza economica, militare e culturale russa rispetto a quella NATO? Professore non mi deluda!
Lei è un fine analista di dinamiche europee come può non sapere che l’accerchiamento NATO della Russia costituisce una minaccia alla sicurezza di Mosca e questo ha spinto lo zar a una guerra preventiva, trasformatasi oggi, nell’orrore degli ucraini, in una escalation che vede contrapposti NATO e Russia.
Gentile professore, lei ha nipoti? Ogni qualvolta afferma che è evidente e inevitabile una politica bellicistica non sa di mettere a repentaglio la vita delle generazioni più giovani? Lei che è un esperto di Affari Europei come può non vedere che il primo e principale scopo della costruzione UE, la pace, sia continuamente rinnegato?
Lasciamo rispondere i diplomatici abituati al pensiero unico della rassegna stampa.
Elena Basile, https://www.lafionda.org/ 15/10/2023
Scrittrice ed editorialista per Il Fatto Quotidiano, è stata Ambasciatrice italiana in Svezia e in Belgio.
Ecco ancora esempi della “grande democrazia occidentale”…..
Il Ministero della pubblica repressione
Dei gruppi studenteschi nelle loro pagine social hanno inneggiato alla resistenza palestinese. Il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara è stato colto «da un senso di disperazione e di rabbia profonda» perché crede che «nessuno abbia il diritto di esprimere opinioni così aberranti».
In preda all’indignazione, si è precipitato a rovistare nel suo strumentario e gli sono venuti per le mani un paio di arnesi che, a naso, potevano fare al caso suo: così, ha disposto subito un’ispezione nelle scuole frequentate dai presunti autori dei post proibiti, e ha dato incarico alla direttrice dell’ufficio scolastico regionale di raccogliere tutte le informazioni necessarie per predisporre una dettagliata relazione sui fatti.
In attesa della chiusura dell’istruttoria, ha pensato bene di anticipare la sentenza auspicando che i responsabili siano puniti in modo esemplare con la prigione, in quanto «personaggi di mentalità nazista, che devono essere isolati e condannati senza se e senza ma».
La reazione ministeriale merita qualche considerazione a margine.
Premesso che, se nel pandemonio della rete i commenti in questione sono formulati in modo da integrare gli estremi di un reato spetta all’autorità competente (che non è il ministro dell’istruzione) procedere, ci si chiede cosa avrebbe potuto fare, passando di là, uno che si trovasse per caso a rivestire quella carica.
Vien da rispondere che, proprio in funzione educativa, costui avrebbe potuto, per esempio, invitare i giovani a riflettere sulla diversità dei piani concettuali che entrano in gioco in una vicenda di infinita complessità, e ad approfondirla sotto il profilo storico, politico, culturale, religioso. Avrebbe potuto, anche, sottolineare la differenza che passa tra una fazione armata e un popolo, all’interno di un’area travagliata che si presenta come un caleidoscopio di mutevoli alleanze.
Invece no. Il monoteismo gnoseologico è capace di far perdere di vista il senso del limite: quello che riguarda l’esercizio del proprio ruolo, la legittimità e l’opportunità della propria azione istituzionale. Fino magari ad arrivare allo straripamento di potere.
Infatti la funzione ispettiva, anche se a orecchio può evocare la figura dell’investigatore sulla scena di un crimine, nel sistema di istruzione ha un significato preciso: opera con finalità di verifica e vigilanza sull’andamento della attività scolastica e dei relativi servizi, e presuppone la sussistenza di un rapporto gerarchico tra chi la esercita e chi vi sia sottoposto. Lo studente e la sua condotta non sono assoggettabili a ispezioni ministeriali. Tantomeno per atti compiuti nell’etere, al di fuori delle mura scolastiche.
Insomma, l’attrezzo trovato in armadio, anche se porta un bel nome, parrebbe inadeguato alla bisogna.
E però, bando alle formalità. E allora anche l’uso strumentale di un mezzo a disposizione può senza dubbio tornare utile per avvertire una volta di più tutti coloro che bazzicano la scuola, docenti e discenti, che la dottrina va rispettata, che sulla ortodossia di pensiero vigila un ineludibile apparato psicopoliziesco inquisitorio e sanzionatorio e che dalla gogna mediatica è un attimo finire chi sa dove, persino dietro le sbarre. E il ministro, in un moto di irrefrenabile garantismo, dichiara di sperarlo.
Mutatis mutandis, ne sa qualcosa anche un tale Zaki, che tanto piaceva alla gente che piace ed era celebrato nei salotti di destra e di sinistra come simbolo della libertà di pensiero e di parola, ma che, per un pensiero e una parola affini a quelli degli studenti incriminati, è passato d’un tratto dagli altari alla polvere, meritevole di censura e insulto libero.
Tornando a noi e al ministro, l’amplificazione di un messaggio social non allineato, accompagnata da una straordinaria enfasi punitiva, assume un’evidente finalità pedagogica erga omnes.
Suona come intimidazione generalizzata e preventiva, gravando di un’altra pesante ipoteca alcune libertà fondamentali, dalla libertà di insegnamento a quella di manifestazione del pensiero, e quest’ultima proprio in capo a quanti un pensiero libero dovrebbero imparare a esercitare a partire dal luogo dove esso viene apertamente conculcato.
Un cortocircuito di senso in cui resta impigliato il ministro stesso quando, nel ridurre ad hitlerum i ragazzi che non la pensano uguale, dice che la scuola deve sempre mettere «la persona al centro» per «tenere vivo questo meraviglioso pluralismo culturale». «Questo» quale?
Va notato che nessuno ha battuto ciglio di fronte alle licenze poetiche e amministrative del titolare del dicastero. Ma forse c’è da farsene una ragione, visto che in realtà della scuola è rimasta solo l’insegna appesa sulla facciata fatiscente di un edificio diroccato, e a questo punto tanto varrebbe cambiarla.
Al suo posto, e a sostegno dell’indottrinamento mediatico sostitutivo, lavora a ciclo continuo la fabbrica degli obbedienti, allevati a pane e agende; quella dove anche la trasgressione (per finta) viene servita insieme al pasto precotto dentro il pacchetto che porta i colori dell’arcobaleno oppure l’effige della fanciulla con le treccine, e il pacchetto contiene pure gli “scioperi” organizzati, promossi e pre-giustificati dalla autorità.
Questi cosiddetti scioperi si chiamano, per esempio, Fridays for Future – ché si chiamassero Venerdì per il Futuro non se li filerebbe nessuno. Così il sistema regala agli scolari l’ebbrezza di sentirsi contro, rigorosamente in inglese, mentre di fatto rastrella torme di inconsapevoli soldatini al servizio del monopensiero e della posa conforme.
Del resto, quando parliamo di scuola parliamo di un luogo ormai profanato, completamente svuotato delle conoscenze e riempito da mucchi di propaganda trasportata in groppa alle belle parole del vocabolario globalizzato.
Del luogo che, guardacaso, nel biennio pandemico è stato teatro stabile di rituali grotteschi e pratiche disumane grazie al pretesto biosecuritario. Dove è stato praticato impunemente il bullismo istituzionale, dove la discriminazione e l’apartheid per motivi ideologici erano all’ordine del giorno, e all’epoca nessun ministro fiatava. Sempre per via che c’è una dottrina che non ammette deroghe, men che meno eresie, altrimenti si è dannati.
Ultimo avviso, dunque. Il postino stavolta ce lo ha recapitato così.
P.S. Giunge fresca la notizia che un liceale minorenne di Gubbio che venerdì (Friday) scorso, non volendo aderire allo “sciopero” (lo chiamano proprio così) per il clima, tentava di entrare a scuola, è stato picchiato a sangue da un altro studente, un ecoattivista evidentemente molto devoto. Al momento non sembra il ministro abbia disposto ispezioni, né invocato pene detentive per il picchiatore. Forse perché costui ha agito per giusta causa?
Elisabetta Frezza, https://www.lafionda.org/ 13/10/2023
Giurista, saggista
Inghilterra: reato sventolare la bandiera palestinese
A me piacerebbe sapere chi sono quegli idioti che pensano ancora di vivere in una democrazia e che non avvertono la presenza del tiranno perché non si incarna in un personaggio, in qualche duce o conducator, ma a massimo in qualche squallido burattino.
Il fatto è che la dittatura è diffusa, i suoi personaggi di riferimento sono nascosti dietro una serie di costrutti ereditati dagli stati democratici che sono ormai morti e adesso nascondono i loro assassini.
Santa pace che introduzione per dire che il governo britannico sta pensando di rendere un reato penale sventolare una bandiera palestinese sulla base del fatto che questo rappresenti un sostegno ad Hamas.
Capisco che essendo inglesi la sottile differenza tra il palestinesi e Hamas possa provocare la vertigini così aboliscono queste differenze e come Israele fa fuoco nel mucchio questi fanno di ogni erba un fascio e adottano l’idea della punizione collettiva contro gli innocenti che è stata la tattica normale impiegata dai governanti coloniali.
E siccome le governance occidentali sono ormai essenzialmente fasciste impediscono l’espressione del pensiero e anche l’uso di elementi simbolici come può essere appunto una bandiera.
Dal momento che l’assetto della Palestina è stato in gran parte determinato dalla Gran Bretagna essa non può che approvare il linguaggio di violenza e intriso di sangue del governo israeliano.
E a Londra che si deve la distruzione di 530 villaggi e città palestinesi per impadronirsi del territorio, aver lasciato che venissero compiute più di 70 massacri con decine di migliaia di morti e avallato la pulizia etnica con la cacciata di 750 mila persone. Parliamo solo del periodo 48 – 49.
Io considererei un atto di appoggio al terrorismo internazionale sventolare o anche solo esporre la bandiera inglese che è una delle più insanguinate del mondo.
https://ilsimplicissimus2.com/ 11/10/2023
DALLA RETE (allargare le immagini)
ANNO IV DEL REGIME SANITARIO- ECOLOGICO- DIGITALE
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