intervista a Michael Sandel*, a cura di Corrado Del Bò ed Eleonora Marchiafava

Basta che uno scambio di mercato sia libero e volontario perché nessuno possa opporvisi? Davvero  dobbiamo essere indifferenti rispetto al contenuto delle preferenze individuali, come il pensiero economico mainstream tende a ritenere? O ci sono beni che il denaro non deve poter comprare? E quali? Fino a che punto possiamo accettare che si spinga il potere del denaro? Quando, invece, abbiamo buone ragioni per evitare che un bene divenga merce? Quando, in breve, la morale deve dettare legge al mercato? A queste e altre domande prova a rispondere Michael Sandel, filosofo politico che insegna a Harvard, nel suo libro appena uscito per Feltrinelli Quello che i soldi non possono comprare (pp. 233, euro 22,00). Sono risposte che partono da esempi concreti: dalle celle più confortevoli per detenuti disposti a pagare un extra al bagarinaggio delle messe del papa, passando per il diritto di saltare le code (pagando, s’intende), la vendita di sangue, l’utero in affitto, i tatuaggi pubblicitari permanenti, l’esternalizzazione della guerra alle compagnie private, i futures sul terrorismo. E sono risposte che generano altri interrogativi, in una trama allo stesso tempo semplice e sofisticata che, alla fine, chiama il lettore a una pronuncia morale: è giusto che sia il denaro a decidere come distribuire un certo bene?

Il sottotitolo del suo libro è «I limiti morali al mercato». Questo già dice molto su quello che è il suo scopo principale. Che cosa aveva in mente quando lo ha scritto?

Uno degli obiettivi del libro è sfidare il modo in cui il pensiero economico è concepito oggi. Il libro cerca di contrapporsi a un certo modo mainstream in cui viene interpretato il ruolo del mercato e in particolare prova a mettere in discussione l’idea che l’economia sia una scienza moralmente neutrale del comportamento umano. All’incirca dal secolo scorso l’economia si è sempre presentata come una scienza neutrale rispetto i valori, che non prendeva, quindi, mai posizione sui meccanismi di mercato e sulle preferenze delle persone. Io penso, invece, che debba essere vista come una parte della filosofia morale e politica, soprattutto oggi che l’economia cerca di offrire un modello capace di spiegare tutta l’esistenza.

Agli economisti questo modo di vedere le cose non piacerà…

Non è sorprendente che gli economisti cerchino di resistere alle tesi contenute nel mio libro. Cercano di separare l’economia dalla filosofia morale e politica, e possono essere sospettosi rispetto a un contributo come il mio, che al contrario tenta di definire la natura dell’economia come disciplina non autonoma. Ma io voglio soltanto che si sviluppi il dibattito e spero che il mio libro possa incoraggiarlo. Anche per questo ho scritto un libro seguendo uno stile espositivo che fosse accessibile a tutti, non un libro solamente per accademici; ed è per questo motivo che ho utilizzato molti esempi e diverse storie per illustrare i punti filosofici che intendevo di volta in volta sollevare. Ho fatto così perché la questione del ruolo del mercato nella nostra società è una questione troppo importante per non essere affrontata apertamente a livello pubblico.

 Perché a suo giudizio chi parla di limiti morali del mercato è guardato con scetticismo (se va bene) oppure con disprezzo (se va male)?

Penso che le persone resistano all’idea che il mercato abbia dei limiti morali fondamentalmente per due ragioni. La prima è che il mercato viene visto come qualcosa che produce crescita economica e benessere. Su questo, sia chiaro, hanno ragione, e il mio libro non è – ci tengo a precisarlo – contro l’economia di mercato in quanto tale. Il mio libro punta casomai a porre il mercato nel posto che gli compete. Questo è ciò che intendo quando invoco la necessità di porre dei «confini» etici. La seconda ragione invece è più profonda e ha a che fare col fascino che suscitano i mercati per la relazione che intrattengono con la libertà, o meglio, con una certa idea di libertà. In base a ciò, il nocciolo è l’arbitrio della scelta; e le persone la esprimono entrando in rapporti di scambio volontario le une con le altre. Alcuni scambi riguardano beni materiali, come le automobili o i tostapane, altri invece hanno un aspetto fortemente, diciamo così, morale, come è nel caso della compravendita di reni o dell’utero in affitto, o anche più banalmente quando si deve decidere se pagare i bambini per leggere libri. E questo aspetto morale non possiamo eluderlo, ed è per tale motivo che – come ho cercato di argomentare nel libro – la libertà non si riduce a quella del consumatore.

Sta dicendo che il denaro offre solamente una libertà «monca»?

Sì, la libertà che esercitiamo sul mercato è soltanto una parte della nostra libertà, non è «intera». È un’idea di libertà intesa come neutralità, in virtù della quale rinunciamo a interrogarci su quali siano i modi di vivere che riteniamo corretti o quali invece riteniamo sbagliati; rinunciamo così a considerare anche solo l’ipotesi che la libertà del consumatore possa degradare o corrompere i beni oggetto di compravendita. Siccome però esiste anche una libertà che possediamo come cittadini, dobbiamo piuttosto chiederci, per esempio, se l’utero in affitto corrompa l’idea di genitorialità o se offrire un compenso ai bambini perché leggano libri corrompa il valore della lettura.

Pare di capire che lei reclami l’esigenza di un maggior dibattito pubblico, anche a costo di produrre maggiore controversia…

Proprio così. Le persone nelle società odierne sono in disaccordo rispetto ai valori, ai modi di vivere, alle virtù civiche, ed è forse per questo che esiste ed è forte la tentazione di esternalizzare le questioni morali al mercato, nell’idea che i mercati siano strumenti neutrali che distribuiscono i beni secondo le preferenze delle persone. Ma questo io penso sia un errore. In questo modo, infatti, il discorso pubblico democratico diventa sempre più vuoto, sempre meno interessante, e noi abbiamo in effetti perso la capacità di impegnarci nei dibattiti sulle grandi questioni. In parte, lo scopo del libro è quello di mostrare che il mercato non è uno strumento neutrale e non può definire che cos’è giusto e cosa sbagliato, né quale sia la natura dei beni che produciamo. Ma è anche un richiamo alla responsabilità che abbiamo come cittadini di regimi democratici, che non possono non discutere tra loro su quale sia il ruolo appropriato per i mercati e su quali beni devono essere a questi sottratti.

È molto istruttiva la discussione che lei fa della caccia al tricheco. I fatti. Il governo canadese autorizzava gli Inuit a cacciare un certo numero di trichechi, come esenzione culturale rispetto a una regola generale che imponeva il divieto. Essendo il tricheco sulle liste che i cacciatori tentano di completare, gli Inuit proposero al governo di cedere, dietro compenso, il diritto di sparo ai cacciatori non Inuit, tenendo comunque per sé la carne e la pelle degli animali uccisi. Il governo accettò. Ma chi ha assistito alla caccia al tricheco l’ha definita uno«sparare a una poltrona molto grossa», un esercizio di nessuna difficoltà… È questo anche il suo punto?

Penso che l’esempio del tricheco sia molto interessante, perché tutti sembrano guadagnarci e nessuno perderci: ci guadagnano gli Inuit, che ottengono reddito extra, e i cacciatori, che completano la loro lista; non ci perde il governo, che è indifferente a chi materialmente uccide i trichechi; e i trichechi che vengono uccisi dai cacciatori sono gli stessi che sarebbero comunque ammazzati dagli Inuit. Eppure esiste qualcosa da obiettare a questa pratica. A mio parere, due sono le obiezioni possibili. Una è che il desiderio del cacciatore di sparare a un tricheco non ha nulla di vagamente sportivo; non c’è alcun pericolo, come invece ci può essere nel dare la caccia, che so, a una tigre. Dov’è il rischio, dov’è la sfida, nello sparare a un animale che non oppone resistenza né cerca di fuggire? A me pare un desiderio indegno e perverso, anche se porta denaro nelle tasche degli Inuit.È chiaro che questa obiezione si fonda su un qualche tipo di giudizio morale, che ci chiede di pronunciarci sul fatto che una pratica possa essere ripugnante o poco ammirevole. Aggiungo però anche una seconda ragione per obiettare a questa pratica. Le esenzioni culturali storicamente sono finalizzate ad accordare rispetto a certi stili di vita tradizionali e culturalmente fondati: un conto però è offrire loro riconoscimento, un altro è convertire questo riconoscimento in un business. In altre parole, gli Inuit, cedendo il proprio diritto a uccidere i trichechi, trasformano in un’operazione  commerciale il riconoscimento pubblico della propria cultura e contribuiscono a corrompere il significato originale dell’esenzione di cui sono titolari.

L’ultima domanda non può che riguardare la situazione che stiamo vivendo oggi. Viviamo un’epoca in cui non si fa che parlare di soldi, ma non tanto dei soldi che si possono accumulare col capitalismo, bensì dei soldi che mancano alle famiglie per arrivare a fine mese e ai giovani per costruirsi un futuro. Per dirla in breve, il libro parla di denaro mentre siamo nel pieno della crisi. Lei pensa che gli economisti, perlomeno gli economisti mainstream, portino delle responsabilità per la crisi finanziaria che stiamo attraversando?

Gli economisti come individui certamente no. Penso però che un certo modo di vedere le cose, un modo di vedere che possiamo definire «economicista», abbia fornito lo sfondo che ha in qualche misura favorito la crisi. La crisi finanziaria è, dopotutto, arrivata al termine di tre decenni caratterizzati dalla fede nel trionfalismo dei mercati, durante i quali il mercato come meccanismo per distribuire i beni ha acquisito e goduto di grande prestigio. Quando nel 2008 è sopraggiunta la crisi, ero convinto che avremmo assistito alla fine dell’era del trionfalismo dei mercati e pensavo che ci sarebbe stata l’occasione per un serio dibattito pubblico sul ruolo dei mercati nelle società democratiche contemporanee. Curioso, che questo non sia accaduto, no?

 

*Michael Sandel è professore di Government, cattedra Anne T. e Robert M. Bass, alla Harvard University, dove ha anche insegnato filosofia politica. Con il suo libro Il liberalismo e i limiti della giustizia, uscito nel 1982 e tradotto in italiano da Feltrinelli, si è accreditato come uno principali critici alla teoria della giustizia di John Rawls, alla quale egli sostanzialmente rimprovera di aver adottato una concezione della persona morale poco plausibile e di aver trascurato, in nome dell’ideale della neutralità della giustizia, il ruolo «politico » che le concezioni del bene individuali finiscono per avere. È noto al grande pubblico soprattutto per le sue lezioni sulla giustizia, che hanno ispirato il bestseller mondiale «Giustizia: il nostro bene comune» (Feltrinelli 2010) e sono fruibili on line al sito «www.JusticeHarvard. org». In «Quello che i soldi non possono comprare», appena uscito per Feltrinelli, Sandel pone pressanti questioni relative al ruolo appropriato dei mercati e del denaro nelle società democratiche contemporanee, auspicando al contempo l’avvio di un dibattito pubblico su come i beni devono essere distribuiti.

 

il manifesto      12 giugno 2013

 

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