Esiste un gioco che a molti esperti pare astruso, o perché superfluo o perché poco serio e fuorviante. È il gioco della storia che si fa con i se: che ha dunque come oggetto non solo il mondo com’è stato fatto – come ci sta davanti – ma come avrebbe potuto essere, se invece di imboccare una strada ne avesse presa un’altra. Declinato al presente è più di un gioco: è un esercizio intellettuale che mette il pensiero in movimento, un metodo per guardare all’oggi come a una storia che possiamo scrivere in un modo o nell’altro, non dipendendo il suo svolgimento da forze impersonali ma dalla persona che ciascuno di noi è.
Così per l’Europa. L’Europa può andare in una direzione oppure un’altra, affatto diversa. È tutta piena di questa congiunzione ipotetica – il se – e nuove e impreviste possono essere le risposte alle domande che ci facciamo: di quale Europa stiamo parlando? Come definire la sua necessità, il suo dover essere? Qual è il patrimonio che si vuol difendere? E soprattutto, da qualche anno: come trasformare la rabbia che sta suscitando prima in bisogno («qualcosa mi manca» – «per ottenere quel che voglio occorre passare di lì»), poi in progetto? Sia detto per inciso: l’Europa non sarebbe stata pensata in un certo momento – nel mezzo d’una guerra, mentre la Germania piegava il continente – se qualcuno non avesse cominciato a immaginare un «se» ritenuto improponibile e fuorviante dai più. Il metodo, oggi, consiste nel chiedersi come sarebbe il mondo che viviamo, se la crisi che ha lambito l’Europa, cinque anni fa, fosse stata affrontata in modo differente.
In genere, gli storici guardano con un certo disprezzo a questi esercizi mentali: la storia, dicono, non essendoci contemporanea non si fa con i se. Non esiste la storia virtuale. Studiare i se della storia è utile, per capire qualcosa di fondamentale. È esistito sempre (esiste sempre) un attimo, un punto di svolta e d’incertezza, in cui l’alternativa era possibile, in cui gli eventi avrebbero potuto prendere un’altra piega: perché la storia è fatta di pieghe, e le pieghe ci interessano quasi più della cronologia, che ci presenta un tessuto già stirato a puntino dai posteri o dai vincitori. Nella Germania prehitleriana si poteva fare una politica antirecessiva, al posto dell’austerità applicata dal governo Brüning, e forse Hitler non avrebbe ottenuto nel ’33 consensi così spettacolari. Oppure: gli americani avrebbero potuto rifiutare accordi con la mafia siciliana, quando liberarono il nostro paese dal fascismo, e la storia italiana del dopoguerra sarebbe stata diversa, forse non staremmo ancora a parlare di patti fra Stato e mafia. E via ipotizzando e usando i se, i forse, i congiuntivi, i condizionali.
L’Europa com’è andata sviluppandosi dal 2008 in poi si presta assai bene a quest’esercizio mentale. I modi in cui la crisi viene ormai da anni gestita – dai governi in primis, e dalle autorità di Bruxelles che tendono a esprimere le volontà non dell’intera area che rappresentano ma dei paesi più forti – sono molto singolari: è come se non stessimo facendo la storia, ma vivessimo conficcati dentro unastoria predeterminata. È questo che rende così insopportabile il mantra che sentiamo ripetere: «Non c’è alternativa». È una locuzione adeguata agli eventi quando sono trascorsi, e scritti in un certo modo. Quando si condensano in una narrazione teleologica, finalistica, e tutti i «se» vengono scartati come futili o idealisti. Nulla si può cambiare, neanche lontanamente sono ipotizzabili alternative. E non a caso è così in voga questa parola: Narrazione. La Narrazione è predefinita, l’autore può magari tenerci con il fiato sospeso – per esempio quando scrive un giallo – ma lui sa come andranno a finire le cose, chi è il colpevole e chi il vincitore o l’innocente o l’eroe. Mentre noi no, queste cose non le sappiamo: per nostra fortuna possiamo prenderci la libertà di sbizzarrirci e questa virtualità è una nostra fortuna.
Così la Narrazione della nostra crisi: gli autori del giallo europeo hanno iscritto nella scaletta le cure di austerità, la divisione fra centro (Germania essenzialmente) e periferie sud, anche il disfarsi della democrazia e delle costituzioni nazionali, visto come ineluttabile danno collaterale di una stabilità politica eretta a nuovo valore etico incondizionato (questo significa la locuzione «valore assoluto », recentemente impiegata dal Presidente del Consiglio). La frode è questa scaletta, che non solamente è inconfutabile ma ha la pretesa di raggiungere una vetta (l’Europa politica padrona di sé) con mezzi rigorosamente inadatti a scalarla. La frode è quest’hegeliana certezza che il presunto razionale sia reale, e il presunto reale razionale. La storia non la stiamo fabbricando con le nostre mani, perché già è messa nero su bianco. Questo vero e proprio assassinio del possibile è la principale caratteristica dell’Europa quale oggi esiste, e si può capire l’indignazione che suscita, e anche la rabbia e il rigetto. Chi si arrabbia, chi perde la pazienza e «non ci crede più» – gli euroscettici è il nome che hanno avuto per un certo tempo, oggi si parla di populisti – sono i soggetti della storia in cui forse c’è da sperare.
Se non esistessero – se non esistesse una crisi che si acuisce – non staremmo a interrogarci sul bisogno o non bisogno d’Europa. La rabbia dei cittadini è un’opportunità che ci viene data, come è un’opportunità lo spread. La rabbia stessa è spread, non finanziario ma umano: è scarto fra i cittadini e l’idea di Europa, fra popoli e istituzionidemocratiche, sia nazionali che europee. È reazione a un patto sociale violato, a un patrimonio negato. Quando penso a questo tipo di spread, mi torna in mente l’Uomo senza Qualità descritto da Musil alla luce crepuscolare di un’altra grande idea che stava degenerando: quella dell’impero austro-ungarico. Ulrich, l’Uomo senza Qualità, definisce se stesso un Möglichkeitsmensch, un uomo della possibilità – un possibilitario – che non smette d’innervosirsi davanti al cosiddetto senso della realtà, della «cose come sono».
Vorrei citare il passaggio in questione, perché nell’ordine dei verbi toglie il monopolio all’indicativo, restituendo dignità ai condizionali, ai congiuntivi, al controfattuale: «Chi è dotato del senso della possibilità non dice ad esempio: “Qui è accaduto, accadrà o deve accadere questo oppure quello”, bensì: “Qui potrebbe o dovrebbe accadere un certo evento”. E se, di una cosa qualsiasi, gli si spiega che è come è, allora penserà: “Certo, ma potrebbe benissimo essere diversa”. Quindi, il senso della possibilità è addirittura definibile come la capacità di pensare a tutto ciò che potrebbe essere, e di non ritenere ciò che è più importante di ciò che non è (…). La vita di questi uomini della possibilità è tessuta, si potrebbe dire, con un filato più sottile, un filato fatto di fumo, immaginazione, fantasticherie e congiuntivi; quando un bambino manifesta una simile tendenza, gliela si fa passare con metodi energici e, davanti a lui, quegli individui vengono definiti visionari, sognatori, codardi e saccenti o criticoni. Chi vuol lodare quei matti, li definisce anche idealisti».
Barbara Spinelli la Repubblica 12 ottobre 2013