TRA le religioni monoteiste è solo il cristianesimo a conoscere il fenomeno della santità, che invece rimane del tutto sconosciuto all’ebraismo e all’islam. Non che in queste due grandi religioni non vi siano stati e non vi siano uomini e donne di grande spessore spirituale, ma né l’ebraismo né l’islam nel riconoscerne il valore hanno mai sentito l’esigenza di dichiararli “santi”. Per queste due religioni infatti la santità appartiene per definizione solo a Dio, e l’uomo, fosse anche il migliore di tutti, fosse anche il profeta Elia o il profeta Muhammad, non può strutturalmente partecipare al divino, e quindi può essere sì giusto, osservante, devoto, ma mai può essere santo.
Il cristianesimo al contrario crede nella possibilità della comunione ontologica tra il divino e l’umano. Di una comunione cioè che non riguarda solo la volontà del credente ma giunge a comprenderne anche l’essere. In questo senso si può dire che la santità è una conseguenza dell’incarnazione, del farsi uomo da parte di Dio in Gesù di Nazaret: come il Figlio infatti da vero Dio è diventato uomo, così i suoi discepoli migliori da semplici uomini giungono alla possibilità di partecipare alla condizione divina denominata santità. C’è molto ottimismo, c’è molta simpatia verso l’uomo, nel dichiararne la santità. E non è certo un caso che tra le diverse forme di cristianesimo siano in particolare il cattolicesimo e l’ortodossia a insistere sulla santità, che invece è quasi del tutto dimenticata nel protestantesimo la cui teologia è per lo più caratterizzata da un’antropologia pessimista secondo cui l’uomo non potrà mai giungere a una natura pienamente riconciliata (per Lutero si è sempre simul iustus et peccator , il male cioè non può essere mai del tutto sradicato neppure nel migliore dei giusti).
In questa prospettiva il cattolicesimo mostra una grande affinità con l’induismo, per il quale la comunione tra il divino e l’umano è all’ordine del giorno, e con il buddhismo, per il quale la natura di Buddha appartiene di diritto a ogni essere umano. E infatti entrambe queste grandi religioni conoscono, come il cattolicesimo, il fenomeno della santità, fino a giungere a condividere l’appellativo “Sua Santità” che appartiene tanto al Romano pontefice quanto al Dalai Lama, mentre l’appellativo Mahatma (grande anima) riservato dall’induismo ai suoi figli migliori è solo un altro modo di dichiararne la santità.
Che cosa contraddistingue allora la santità cattolica? La risposta è la Chiesa, ovvero il fatto che la santità non viene riconosciuta dal basso, dal popolo, per gli evidenti meriti del maestro, come fu il caso di Gandhi chiamato Mahatma già in vita, ma diviene tale solo in seguito a una formale dichiarazione della gerarchia ecclesiastica detta canonizzazione. E qui si inserisce, oltre alla dimensione teologico-spirituale dichiarata sopra, la valenza politica del fenomeno santità. La politica infatti ha sempre giocato un grande ruolo nella storia della Chiesa alla prese con la dichiarazione della santità dei suoi figli migliori. Nel bene e nel male. Si pensi nel primo caso alla rapidissima canonizzazione di Francesco d’Assisi, proclamato santo a neppure due anni dalla morte. E si pensi nel secondo caso alla canonizzazione dell’imperatore Costantino o alla beatificazione di Carlo Magno, uomini di immenso potere, dalla vita non proprio integerrima e tuttavia elevati agli onori dell’altare.
La canonizzazione da parte del papato di propri esponenti, compresa quella di domenica prossima, rientra alla perfezione in questa prospettiva dalla forte connotazione politica: degli otto pontefici del ‘900 ormai ben tre (Pio X, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II) sono diventati santi e tre sono sulla via per diventarlo (Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo I), lasciando peraltro la memoria degli altri due (Benedetto XV e Pio XI) in grave imbarazzo.
Aveva del tutto torto il cardinal Martini a essere contrario alla canonizzazione dei papi recenti? Tanto più che la politica ecclesiastica non si esprime solo sulle canonizzazioni in positivo, ma anche su quelle in negativo, sull’esclusione cioè di chi meriterebbe di essere riconosciuto santo ma non lo diviene. È il caso di monsignor Oscar Romero, ucciso dagli squadroni della morte il 24 marzo 1980 mentre celebrava la messa nella cattedrale di San Salvador per la difesa dei diritti dei poveri, e mai beatificato da Giovanni Paolo II, che anzi in vita l’umiliò, né in seguito da Benedetto XVI. Ed è il caso di Helder Camara, il vescovo di Recife, nel nord del Brasile, famoso per la sua lotta a favore degli ultimi (amava ripetere «quando do da mangiare a un povero dicono che sono un santo, quando chiedo perché è povero dicono che sono comunista») per la sua gente già santo ma non per il Vaticano.
La santità esprime un grande ottimismo sulla natura umana in quanto ritenuta capace realmente di bene e per questo il suo istituto è tanto importante e andrebbe governato con maggiore spirito di profezia. La politica però ha purtroppo spesso la meglio, e la canonizzazione parallela di domenica prossima di due papi tanto diversi lo dimostra ancora una volta.
Vito Mancuso, teologo e scrittore Repubblica 24.4.14