Cos’è oggi lo Stato? Uomini in divisa che ammazzano di botte (letteralmente) cittadini in difficoltà che allo Stato si erano affidati. Dov’è oggi lo Stato? Nella sala affollata di un sindacato della Polizia di Stato, che inneggia agli agenti condannati dai giudici dello Stato per aver massacrato il ragazzo Federico Aldrovandi. Solidarietà che un giorno potrebbe essere estesa ai loro colleghi nelle cui mani sono morti, tra urla disperate e nel silenzio, Giuseppe Uva, Stefano Cucchi, Michele Ferrulli, Riccardo Magherini. Dove non è oggi lo Stato? Accanto all’ispettore della Polizia di Stato, Roberto Mancini, che per primo indagò sui veleni della Terra dei Fuochi e che nelle centinaia di siti tossici esplorati contrasse quel tumore del sangue che lo ha ucciso e per il quale il ministero degli Interni, organo del governo dello Stato, gli riconobbe un risarcimento di 5 mila (cinquemila) euro.

Sui testi di diritto viene definito Stato l’organizzazione sovrana di un popolo su un territorio. Di questo Stato conosciamo l’organizzazione, i falansteri nei quali si addensano agglomerati inestricabili di funzioni e mansioni e quasi mai fattezze umane. Anche la sovranità ci è nota, quella che i dignitari esercitano sui sudditi, a loro discrezione e se capita agli amici il favore, a tutti gli altri l’arbitrio. Ma il popolo, dov’è il popolo? Se ne parla diffusamente nella Costituzione, ma nella realtà non conta niente e subisce tutto. Tartassato dallo Stato esattore, vessato dallo Stato riscossore è soprattutto un popolo disoccupato che il Primo maggio festeggia il non lavoro, rintronato dalle promesse dei politici che dello Stato sono l’espressione più perniciosa, l’avanspettacolo che intrattiene mentre ti frugano nelle tasche. Che fa oggi lo Stato? Si fa odiare perché se provi a protestare e non stai attento finisci soffocato nel tuo stesso sangue a opera di quegli uomini dello Stato che difendono appassionatamente i colleghi assassini. Il loro applauso ci dice: noi siamo lo Stato e voi non siete nulla.

Antonio Padellaro       Il Fatto Quotidiano  01/05/2014.

 

L’AMACA

Quello che angoscia, nell’applauso dei poliziotti del Sap ai colleghi che hanno pestato a morte Aldrovandi, in quello stanzone zeppo di maschi a basso reddito spaventatissimi dal futuro, è la sensazione di claustrofobia sociale: una tribù chiusa in se stessa che guarda in cagnesco le altre tribù. Niente che davvero unisca, spieghi le differenze, superi le diffidenze. Non le leggi dello Stato (che non consentono ai poliziotti di pestare a morte), non il sentimento della solidarietà, non uno straccio di linguaggio comune. E la parola “diritti”, la più universale delle parole, che viene ritorta su se stessa, contro se stessa: accende gli animi solo se è applicata alla propria corporazione, conventicola, orticello, sindacatino. È una società in frantumi, quella che esce da questa storia assurda. Dove ciascuno, nella propria atterrita solitudine, si sente troppo debole per caricarsi in spalle le proprie responsabilità, e latra contro gli altri (lo Stato, la politica, la crisi, l’Europa, le caste, l’immigrazione, qualunque pretesto o fantasma che aiuti a tapparsi occhi e orecchie) pur di non fare i conti con se stesso. Non è solo per quel ragazzo morto che c’è da mettersi le mani nei capelli. È per la morte, ennesima, dello spirito di comunità.

Michele Serra        Il Fatto Quotidiano  01/05/2014.

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