RICORDATE in C’eravamo tanto amati di Ettore Scola la scena della proiezione di Ladri di bicicletta ? Siamo ancora tutti là, dentro quel piccolo cinema di paese, dove il professor Caprigno, disgustato dopo aver visto il film di De Sica, si alza e dichiara: «Opere siffatte offendono la grazia, la poesia, il bello». “QUESTI stracci e questi cessi ci diffamano di fronte al mondo. Di questi filmacci bene ha detto un giovane cattolico di grande avvenire, vicino a De Gasperi (Andreotti): i panni sporchi si lavano in famiglia”. Talvolta ho l’impressione che qualcuno non sia mai uscito da quel cineforum di Nocera Inferiore.
Di professor Caprigno il nostro paese è pieno. Ne sono usciti fuori molti quando Gomorra — il libro — iniziò ad avere successo. E ancora oggi molti criticano Gomorra, la serie tv. Napoletani che si sentono umiliati, italiani che lo vedono come un modo per diffamare il paese. Eppure — con la puntata che si conclude oggi — questa è la serie italiana tv più vista di sempre, ed è già stata venduta in 50 paesi. Ma anche questo delude i professor Caprigno che lo vedono come un’onta fatta all’Italia. Non immaginavo, quando iniziai a pensare di poter costruire una serie televisiva dalle storie scritte in Gomorra, che davvero saremmo arrivati a costruire un progetto come quello che è andato in onda su Sky. Che saremmo riusciti a condensare in uno spazio limitato il maggior numero di informazioni, dettagli.
Dettagli, di questo è fatto il racconto di Gomorra. Di dettagli reali, di dettagli presi dalle inchieste, dai verbali delle intercettazioni, dalla cronaca quotidiana. Dalla cronaca attuale e da quella che ormai appartiene alla storia. A una storia che per me, per noi, non è affatto lontana, anche se sono in molti a volerla dimenticare perché è più facile in questo modo guardare in faccia i propri fallimenti. Ma la sfida era difficile e per questo non era scontato che alla fine ci saremmo riusciti. La sfida era raccontare il male dal suo interno, mantenendo credibilità, alleggerendo la narrazione senza suscitare mai empatia. Avevamo l’ambizione di tracciare una via italiana alternativa per le serie tv per non ricalcare le produzioni americane. Non volevamo raccontare la camorra al mondo, ma al contrario raccontare il mondo attraverso la camorra.
Il nostro punto di partenza era questo: il peggior modo di raccontare il bene è farlo in modo didascalico. Tutti cattivi? Sì, in quel mondo non ci sono personaggi positivi, il bene ne è alieno. Nessuno con cui lo spettatore può solidarizzare, nel quale si può identificare. Nessun balsamo consolatorio. Nessun respiro di sollievo. Lo spettatore, in maniera simbolica, non doveva avere tregua, come non ha tregua chi vive nei territori in guerra. Quindi la visuale doveva essere unica. Nessuna salvezza per nessuno. Polizia, società civile, sono state messe in secondo piano perché così è nella testa dei personaggi che raccontiamo. Quindi nessuna via di fuga narrativa, nessuna quota di bontà pari a quella della cattiveria. Non una serie in cui ci sono “ il cattivo irredimibile, il cattivo che si redime, un buono con delle ombre e il buono redentore”. Con la storia di sangue e la storia d’amore. Questa dialettica così classica e così scontata non serve più a un paese che è andato culturalmente oltre.
Ecco perché abbiamo scelto un modo diverso di raccontare, non l’unico, non il più giusto, ma certamente diverso. Condivido la critica che spesso viene mossa alle serie italiane — e soprattutto ai direttori di rete che le scelgono — di essere costruite come se qualcuno le avesse masticate prima di darle in pasto ai telespettatori per evitare che possano strozzarsi. Noi non volevamo costruire storie masticate, ma storie difficili da digerire, di quelle che ti tornano in mente il giorno dopo e ancora devi forzarti a scrollartele di dosso. Tutte le polemiche suscitate dal mio lavoro, dal nostro lavoro, me le spiego solo analizzando l’attitudine di gran parte della classe dirigente e intellettuale napoletana, che dopo il dominio della Dc e i Gava, aveva creduto di costruire un nuovo rinascimento. E invece tutto è sprofondato in un nuova degenerazione. Questi amministratori e questi intellettuali hanno una cecità colpevole e complice, incapaci di raccontare ciò che hanno sotto gli occhi. Hanno visto male e poco, hanno scelto di sottovalutare e pensare ad altro.
L’accusa più elementare di solito riguarda l’empatia, l’immedesimazione con personaggi negativi. “I ragazzi — dicono i critici severi — che guarderanno la serie emuleranno le loro gesta”. Ma non è vero: l’immedesimazione non avviene con la realtà, ma con una sua rappresentazione. Non c’è nulla di male. È proprio questo il meccanismo narrativo che faceva scattare la catarsi, la purificazione, nel teatro elisabettiano e prima ancora in quello greco. Comprendere il male per riconoscerlo, per conoscerlo. Quanto di loro c’è in me? Mi comporterei allo stesso modo? Non lo faccio per codardia o per coraggio? Se non conosciamo la storia di chi compie atti atroci, se non conosciamo la storia di chi sceglie il male, come possiamo conoscere il bene? Come possiamo scegliere il bene?
Ma — affermano gli sdegnati censori — Napoli è il sole, il mare, la cultura, i frutti di mare e la pizza più buona del mondo, le canzoni, Enrico Caruso e Villa Pignatelli. Caravaggio e San Domenico Maggiore. Parla di questo no? Rispondo che queste bellezze fanno parte della sua stupenda complessità. Tra l’altro ogni meraviglia appena citata porta con sè sudore, sangue, sporcizia, corruzione. La bellezza di Napoli, isolata e cantata per promuoverne l’immagine, è il modo migliore per renderla sterile. Nelle pagine di Norman Lewis c’è la bellezza di Napoli, ma è colma di dolore, stupri, prostitute, feccia, corruzione. È una bellezza reale. Se dovessimo giudicare Napoli 4-4, Ferito a morte, La pelle, dalle quote di bene e di male, da quanto parlano bene o male di Napoli, distruggeremmo ogni potenza letteraria riducendola a banale minestrone. Non riusciremmo a notare l’equilibrio nel racconto e non riusciremmo a comprenderne la complessità, la necessità. Napoli come racconto universale. Eppure l’Italia dei professor Caprigno chiedeva a Gomorra La serie di essere una agiografia, non una narrazione. Che cosa assurda.
New York si è mai ribellata alle centinaia di film che la raccontavano colma di contraddizioni? Ha boicottato Scorsese? Albuquerque avrebbe dovuto promuovere una class action contro Breaking Bad ? La Germania dovrebbe forse raccogliere firme per dire al mondo: basta raccontare il nazismo noi siamo anche altro? Il racconto del male, d’altra parte, non annichilisce affatto il lavoro delle associazioni e della politica che davvero lavora. Anzi. Mentre scrivo, a Casal di Principe è stato eletto sindaco Renato Natale, un uomo da sempre in lotta contro i clan. La sua elezione è un miracolo: aver raccontato il mondo nero della camorra non l’ha danneggiato ma ha reso più necessaria e imperativa la sua candidatura. La censura del resto è così: solerte tanto quanto la sua impotenza. Nel film di Scola così Satta Flores, rispondeva a Caprigno: “Egregio signor Preside, noi qui stasera abbiamo visto un film stupendo! Con i suoi cessi e i suoi stracci, esso ci fa riconoscere i veri nemici della collettività proprio nei falsi difensori della grazia, della poesia, del bello e di tutti gli altri ipocriti valori borghesia”. Forza, usciamo tutti dal cineforum di Nocera Inferiore.
Roberto Saviano La Repubblica 10/06/2014.