Gli ordini ormai li danno altri
Potremmo cominciare questa conversazione con Gustavo Zagrebelsky così: a che punto stiamo? Non è un particolare che la chiacchierata avvenga su un Frecciarossa, treno ad alta velocità, simbolo della politica futurista dei rottamatori. Non è un particolare che si sia diretti a Firenze, la neocapitale del potere. E, aggiunge il professore, “nemmeno che il vagone più lussuoso si chiami executive. Subito dopo c’è la carrozza business. Esecutivo e affari sono una bella simbiosi”. Su Repubblica qualche giorno fa è apparso uno stralcio dell’intervento di Zagrebelsky che oggi (ieri per chi legge) inaugura la due giorni di Libertà e Giustizia. Il tema è l’esecutivo pigliatutto. “Alcuni colleghi, dopo aver letto l’articolo, mi hanno scritto che mi avrebbero bocciato all’esame di diritto costituzionale. Secondo la visione di Rousseau, il corpo legislativo esprime la sovranità nazionale e l’esecutivo la esegue. L’altra scuola dice che l’esecutivo è il governo, che detta l’indirizzo politico. Quando io dico che siamo in un’epoca esecutiva, intendo che il governo non decide più sui fini. Realizza compiti che gli sono assegnati e a cui non si può sottrarre”.
Quali sono questi compiti? Si dice che gli Stati hanno perso sovranità, cioè che le grandi scelte sono sottratte ai governi. I governi sono chiamati a risanare i conti. Francia, Italia, Grecia, Portogallo: non possono sgarrare, la minaccia è forte. Tanto che anche Tsipras ha fatto una mezza retromarcia. La cessione di sovranità è prevista dalla Costituzione: “L’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. La nostra Costituzione è aperta. Ma la limitazione è prevista in vista della pace e della giustizia tra le Nazioni, non per mettersi al servizio della finanza internazionale! L’obiettivo si è rovesciato in cessione di sovranità politica a favore di sovranità finanziaria. Siamo in un momento in cui il potere economico ha sopravanzato il potere politico, ci si è alleato subordinandolo.
Torniamo alla sua bocciatura. L’obiezione è che sono almeno due secoli che i governi sono titolari di indirizzo politico. E non esecutivi nel senso di Rousseau. E questo sta a dire che i governi dominano i Parlamenti. I governi esecutori non ammettono ostacoli, obiezioni, inciampi. Monti, parlando in una sede europea, aveva detto che i governi devono essere in grado di educare i Parlamenti. Ma nelle democrazie parlamentari dovrebbe essere il contrario. Ma siamo ancora in un regime parlamentare? È una fase di trasformazione. C’è stato un rovesciamento dei pesi, la democrazia prevista dalla Costituzione si genera dal basso, si esprime in Parlamento e poi dal Parlamento si trasferisce al governo.
A cosa è funzionale questo rovesciamento? Siamo partiti osservando che le carrozze executive sono vicine alla business. Mi pare di aver risposto. Poi bisogna guardare il quadro da lontano per cogliere l’insieme. La legge elettorale, con premio di maggioranza e ballottaggio, mira a comprimere la rappresentanza con la conseguenza che la maggioranza avrà un ruolo molto invadente nelle nomine di garanzia. E la funzione legislativa rischia di essere ridotta a plebiscito sulle decisioni dell’esecutivo, con la spada di Damocle dello scioglimento delle Camere . Si vuole andare verso una sola Camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo. I luoghi della partecipazione sono soffocati dall’azione dall’alto. Questo governo dice che ‘ascolta le parti sociali’. Ma avere un’idea di democrazia partecipata significa che all’ascolto segue un confronto. La svolta autoritaria è il rovesciamento delle basi della decisione pubblica. Il momento esecutivo che noi stiamo vivendo ha bisogno di omologazione, che tutti siano in sintonia con il potere. Allora la partecipazione si riduce all’ascoltare e non al deliberare insieme.
Lei dice: tutto questo accade in un assoluto silenzio su due punti cruciali, la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Per quel che riguarda l’informazione, è chiaro che la forma mentis della stampa è l’adeguamento. Con tutti i governi. Si parte dall’idea che il solo fatto che il governo ci sia è in sé un plusvalore. Non era così all’epoca di Berlusconi, quando l’informazione si divideva in pro e in contro. Oggi, visto che l’assunto è l’assenza di un’alternativa, di ogni governo bisogna dir bene.
È il contrario di quello che il quarto potere dovrebbe fare: vigilare. È vero. Anche se c’è qualcuno che non si adegua. Il Fatto svolge una funzione critica per le disfunzioni, le corruzioni, le malversazioni e le ruberie. Ma anche il vostro giornale non propugna sistemi diversi. Il Fatto dà fastidio perché svolge la funzione di vigilanza all’interno del quadro di politica unica, se fosse un giornale ideologico, che propagandasse idee rivoluzionarie, darebbe molto meno fastidio. Questo significa anche che nemmeno il giornale più d’opposizione riesce o può collocarsi in una diversa prospettiva politica. La condizione di politica unica, vincolata agli obblighi superiori, è la fine della politica perché la politica è la discussione sui fini. Se il fine è unico, perché andare a votare?
E la democrazia interna ai partiti? È decisiva per la qualità della vita pubblica, cioé si riflette sulla qualità degli organi in cui l’azione dei partiti si esplica. Se i partiti sono gestiti autocraticamente, la vita parlamentare sarà dominata dall’autarchia. E il rischio oligarchico diventa massimo con il sistemi elettorali che premiano un partito.
Specie se il segretario del partito di maggioranza è anche il presidente del Consiglio. Questa è una grave stortura. Da un lato la sua carica di segretario del Pd influisce sul governo, ma vale anche al contrario. È un circolo vizioso in cui il potere del capo – del partito e del governo – si alimenta da due fonti.
A proposito di modi della legislazione: ormai si fa tutto – velocemente e subito – con decreti. La risposta è ‘siamo costretti a farlo perché sennò c’è l’ostruzionismo’. Ma l’ostruzionismo è un diritto. Il decreto di attuazione sul Jobs Act contiene l’estensione delle nuove norme sui licenziamenti individuali anche ai licenziamenti collettivi, di cui non c’è traccia nella legge delega e nonostante il parere negativo delle commissioni di Camera e Senato. La Costituzione vuole che le leggi delega abbiano contenuti determinati. Su questo punto la legge delega tace, ma è stato inserito nel decreto. C’è una lunga prassi per cui se le commissioni, pur non essendo il loro parere vincolante, decidono unanimemente in un modo, il governo le segue. Invece il governo se ne è disinteressato. Per come si stanno orientando le istituzioni, il Parlamento non è solo superfluo, è dannoso. Questa è la svolta autoritaria, non i manganelli o l’olio di ricino.
Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano 28/02/2015.
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