Lucia Ottobrini, una delle “quattro ragazze” dei Gruppi d’Azione Patriottica
Delle «quattro ragazze» dei Gruppi d’Azione Patriottica, Lucia Ottobrini è stata certamente quella dal carattere più riservato. Rispetto alla Maria Teresa Regard corrispondente dal Vietnam, alla «ragazza di via Orazio» Marisa Musu, o al «cuore di donna» di Carla Capponi la sua è stata una personalità tanto più austera quanto straordinaria. Lucia è morta sabato scorso a Rocca di Papa mentre nella sede di via dei Giubbonari a Roma suo marito Mario Fiorentini ritirava per il settantesimo anno consecutivo la «tessera del Partito» per entrambi. Tra le sue carte conservate, con quelle dei Gap di Roma presso l’Archivio Storico del Senato, si possono trovare tante tracce di una vita vissuta in modo pieno ma intimo. Una foto con la dedica di amicizia e ringraziamento scrittale da Ho Chi Min, il racconto dei suoi nove mesi di lotta partigiana, le impressioni tragiche su un paese sommerso dalle macerie materiali e storiche del regime fascista.
Nel settembre 1943, a 19 anni, Lucia Ottobrini entra in clandestinità con i falsi nomi di Leda Lamberti e Maria Fiori, percorrendo per intero la strada della lotta armata e della Liberazione di Roma nella stessa formazione, il Gap “Antonio Gramsci”, fondata da quello che sarebbe diventato e rimasto per 70 anni il marito, Mario Fiorentini. Ripeteva sempre che quello rappresentò il suo «incontro col destino» perché racchiuse in un groviglio inestricabile le emozioni e le paure della guerra; l’incontro con il «Partito»; la sua «presa di parola» di donna e l’amore vissuto ogni giorno come fosse l’ultimo.
Nella Roma occupata non si risparmiò mai, lei cattolica-comunista, negli attacchi militari contro i nazisti: il 18 dicembre 1943 con Fiorentini, Carla Capponi e Rosario Bentivegna collocò una bomba al cinema Barberini che uccise 8 soldati tedeschi, il 10 marzo 1944 con un’azione contro un corteo fascista sbaragliò il battaglione «Onore e Combattimento». Dopo sette mesi di guerriglia urbana nella capitale venne inviata dal Pci a Tivoli. Nulla era umanamente più distante da lei della retorica celebrativa, il suo racconto della fine della guerra non parla di sfilate nelle piazze né di eroismi, restituendo l’immagine di come il fascismo aveva ridotto l’Italia: «Stavamo a Tivoli quando arrivò la Liberazione di Roma, dalla finestra vedevo la gente che tornava alla vita. Uscivano dalle caverne con materassi in testa, coperte, vestiti. Guardando tutta quella miseria umana mi feci un pianto amaro». Sorrideva con ironica grazia alla lettura della motivazione della medaglia d’argento al valor militare conferitale alla fine della guerra. Vi si legge, nel goffo linguaggio militaresco, che ha combattuto con «coraggio virile», lei che rappresentava la dolcezza delle sensibilità di donna incarnando, con la sua storia personale, il valore dell’emancipazione.
Davide Conti il manifesto 29.9.15
La ragazza dei Gap
E’ scomparsa Lucia Ottobrini
Lucia Ottobrini era stata una protagonista della Resistenza armata, ma non aveva voglia di parlarne. Io passavo lunghe ore a casa sua intervistando suo marito Mario Fiorentini, come lei combattente nei Gap, e lei si aggirava silenziosa e gentile, offrendo ora un caffè, ora un bicchiere d’acqua, sorvegliando e moderando il flusso narrativo inarrestabile di Mario con le parole («Mario, dai, smettila. Sì, è necessario, bisogna dire le cose, però…») e soprattutto con lo sguardo – una comunicazione ironica e amorosa come solo settant’anni di matrimonio e di amore immutato dal primo giorno possono rendere possibile. Perché la Resistenza è stata anche questo, anche storie d’amore.
Solo una volta si lasciò andare. Era entrata col caffè sulla guantiera, Mario le chiese di ricordargli un nome, e da lì partì una conversazione che durò quasi un’ora, lei sempre in piedi col vassoio, come per dire che non si stava realmente lasciando intervistare, io affascinato con la tazzina che mi si raffreddava in mano. Come un controcanto al racconto eloquente, epico e sacrosantamente orgoglioso di suo marito, le parole di Lucia furono una profonda lezione sui dilemmi e le sofferenze della moralità nella Resistenza. Raccontata – per dirla con Carla Capponi – con cuore di donna, e di donna intrisa di una profonda, autentica, libera spiritualità.
«La guerra è guerra, c’è poco da fare. Ricordo sulla via Empolitana i camion pieni di ragazzini che tornavano a casa e cantavano ‘in die Heimat, in die Heimat, es wird besser gehen’, a casa, a casa andrà tutto meglio». Lei quei camion li ha attaccati con le armi in mano e li ha fatti saltare in aria. «Sono cose che non passano mai. Io li ricordo sempre, per tutta la vita. È un dolore, una cosa tremenda, terribile, glielo posso dire. Per me anche un nemico era un uomo. E mi dispiace infinitamente, tanto. E sono cose molto amare e probabilmente a me mi ha proprio un po’ bollato. Intanto mi ha fatto maturare molto, non mi sento innocente, nessuno è innocente e nessuno può darsi a colpevole».
Ricordo il partigiano ternano Dante Bartolini, uno dei cantori epici e spietati delle glorie combattenti della Resistenza, che pure quando racconta dei camion e dei blindati tedeschi incendiati ricorda anche che «ci stava la povera gente là dentro che non poteva uscire». Anche il nemico è un uomo, anche le vittime nemiche sono povera gente. In questi apparenti scarti narrativi sta la grandezza morale della Resistenza: nella capacità di non dimenticare l’umanità del nemico, di rendersi conto non solo delle sofferenza patite ma anche di quelle inflitte, e di soffrire anche per questo. Forse il sacrificio più grande che hanno offerto tanti partigiani è stato quello di fare violenza per necessità alla loro stessa natura, di sospendere per la nostra libertà una parte della propria stessa umanità lottando al tempo stesso per non dimenticarla e non trasformarsi nell’anima (come diceva l’altra gappista romana Marisa Musu) in «portatori di morte». Questa è una delle cose che li rendono diversi dai loro avversari, che invece della morte avevano il culto.
Forse il momento più alto di tutti racconti partigiani che ho sentito sta in questo scambio con Lucia:
Lucia Ottobrini. Durante la Resistenza io pensavo: è come se trasgredissi, mi vergognavo di rivolgermi a Lui. È stato un periodo diverso.
Portelli. Sentiva di fare una cosa che andava fatta ma Cristo non l’avrebbe approvata.
Lucia. Dopo, nella miseria, in tutte quelle tribolazioni, nella morte, nella guerra io il Cristo l’ho ritrovato in pieno, sempre rimuginando, ripensando: io di queste cose a chi ne parlo? Quando leggo tutte queste testimonianze, o io sono un po’ matta o io sento in maniera diversa, a me non mi va di raccontarle queste storie.
«Io di queste cose con chi ne parlo?» Per tutta la vita, Lucia ha pregato, dice suo marito Mario, che quella fede non condivide ma la ammira. C’era pena nel ricordo e nel racconto, che non per caso sgorga incontrollato nei momenti di sofferenza più intensa, evocando sotterranee associazioni con altre esperienze di morte. «Io ebbi un momento – non di depressione, qualcosa di peggio, quando mi è morto il figlio», ucciso da una macchina vicino casa. «Cercavano di consolarmi e io ho cominciato a parlare, parlare, parlare – avrò parlato per due ore e, caso strano, parlavo della Resistenza. Non so come sono andata a parlare di questo, è stata una mia debolezza, perché pensavo a mio figlio: perché sei morto? Me l’hanno ammazzato per strada – e io dico: come è possibile?».
Il paradosso è che la normalità in cui è possibile tornare a rivolgersi a Cristo è ristabilita proprio grazie alle azioni compiute nella Resistenza, in quel «periodo diverso», trasgressivo, innominabile e tuttavia incancellabile, negato e rivendicato, problematico e glorioso. Perciò: anche in Lucia, sofferenza, ma nessun pentimento. Semmai, un intreccio di pena e orgoglio che lei condivideva, sia pure in gradi e forme diverse da una persona all’altra, con tanti altri (e soprattutto altre) protagonisti e protagoniste della Resistenza. «Venni decorata con la medaglia d’argento da Taviani, allora ministro della Difesa. Stavo insieme a due ufficiali dell’aviazione. Mi prese per la vedova di un combattente e mi disse gentilmente, ‘lei, signora, è la moglie?’ Pensava che fossi la vedova del decorato, che quello fosse morto. Gli feci, ‘guardi, la decorata sono io’».
Alessandro Portelli il manifesto 29.9.15