Primo maggio, festa del lavoro. Solo spiragli di luce nelle tenebre della globalizzazione.

Celebriamo il Primo Maggio. Certo, con il concerto di Piazza San Giovanni a Roma ma con qualche filo di speranza in più, con qualche segno di risveglio sindacale dal letargo degli ultimi anni nella Germania Federale con gli scioperi operai in 130 imprese, con la svolta socialista del partito laburista britannico guidata da Jeremy Corbyn in parallelo con l’insorgenza pre-elettorale di Bernie Sanders nel partito democratico americano, ma anche e soprattutto con gli eventi di Place de la Republique a Parigi e nelle altre città della Francia dove studenti e lavoratori da più di una settimana si battono contro le riforme del patetico socialista Francois Hollande che ha imboccato la strada dell’italiano Matteo Renzi.

Certo, il primo maggio è la festa dei lavoratori, ma da più di un decennio c’è ben poco da festeggiare. Gli spiragli di luce su menzionati non bastano a dissipare le tenebre della diseguaglianza sociale, della perdita di diritti conquistati in cento anni e dell’erosione inarrestabile di libertà e democrazia nel mondo industrializzato.

Il dilemma socialismo o barbarie è stato strapazzato via da una nuova lotta di classe che sta devastando e continua a devastare il pianeta. È la classe dell’ipercapitalismo senza regole che ha fatto passi da gigante dai tempi di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, la classe di una elite oligarchica e supermiliardaria che controlla potere, finanza ed economia. Il suo operato è stato così descritto dal sociologo ed economista David Rosen su “Counterpunch” del 29 aprile u.s.: ”La grande ristrutturazione del capitalismo procede di gran lena cambiando la vita di tutti, sopra tutto dei lavoratori negli Stati Uniti d’America. Ha preso le mosse da un capitalismo internazionale di stati sovrani ed ha perseguito con successo un sistema globalizzato di rapina finanziaria. E in nessun altro luogo è più avvertita e sofferta come nei posti di lavoro.”

Ma il primo maggio è giorno di festa. Lo abbiamo festeggiato con dissennata perseveranza per trentotto anni con un garofano rosso all’occhiello a New York, in una Washington Square pressocché deserta: sei o sette oratori su altrettante cassette di frutta che si guardavano in cagnesco, trotskisti riformisti contro trotskisti rivoluzionari, un comunista stalinista, un vecchio socialista dalla barba bianca ed un pubblico che non superava mai le quaranta persone. Perché la festa del lavoro negli Stati Uniti è stata abrogata, cioè spostata al primo lunedì di settembre con il nome di Labour Day ed il 99,99 percento degli americani è convinto che il primo maggio sia la ricorrenza della parata militare sovietica nella piazza rossa di Mosca. Non una data della storia americana e mondiale che ricorda i sindacalisti di Haymarket a Chicago impiccati perché si battevano per una riduzione ad otto ore dell’orario di lavoro.

Torniamo ai nostri giorni, ai movimenti francesi contro il Jobs Act in versione hollandiana. Il presidente vuole tassare le aziende che assumono precari e non incentivare come ha fatto il Renzi nostrano quelle che dovrebbero favorire i contratti a tempo indeterminato ma il traguardo è lo stesso: facilitare i licenziamenti eliminando gli ostacoli alla flessibilità in uscita. Il Job’s Act con l’apostrofo è l’attitudine del biblico Giobbe di dimostrarsi flessibile e soprattutto paziente di fronte alle prove di un padreterno padrone perché crede nella sua misericordia e resipiscenza finale.

Non ci credono e non sono affatto pazienti gli studenti e i lavoratori insorti in decine e decine di migliaia contro questo ed altri editti presidenziali a Place de la Republique ed altrove. La loro opposizione ricorda quella del maggio 1968, mira all’occupazione permanente dei luoghi pubblici e come previsto ha scatenato i flics in tenuta antisommossa con gas lacrimogeni, idranti, manganelli pesanti e via dicendo. Il movimento ha preso il nome di “Nuit, debout” “La notte, in piedi” che ha origini letterarie antiche. Si ispira ad una scrittrice francese del seicento, Etienne de La Boetie, al suo detto “sono alti solo perché noi siamo in ginocchio”.

Sarebbe bello se a Piazza San Giovanni e in tutto il mondo quest’anno o l’anno prossimo si levassero e rimanessero in piedi giovani ed anziani insieme a tutti gli altri membri della famiglia dell’uomo. Ma forse ci vorrebbe una rivoluzione come auspicò il grande regista Mario Monicelli prima di gettarsi da una finestra al quinto piano dell’ospedale Gemelli.

Lucio Manisco, giornalista        Considerazioni Inattuali n. 91,   30 aprile 2016

 

vedi: Io dico no ai ladri di sovranità

Discorso sulla servitù volontaria

Renzi, Obama, Trump: la politica è finita


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