Lo “spirito della Resistenza” rilanciò un Paese uscito a pezzi dalla guerra: grazie a una straordinaria classe politica

«Isolamento dei luoghi, profondità delle tradizioni e delle culture, bellezza austera e luminosa dei caratteri fisici e umani»: questa era l’Italia che si allungava, piena di ostacoli geografici e disuguaglianze economiche, davanti agli occhi di Vasco Pratolini, improvvisato suiveur del Giro d’Italia, nel 1947. Le sue cronache ci restituiscono un ritratto vivido ed efficace dell’Italia di allora, alternando immagini di una realtà senza tempo, frammiste a quelle totalmente attraversate dalla febbre politica che segnava l’attualità dell’immediato dopoguerra.

Così, in una Val Trebbia «tutta svolte e dirupi, con la natura da paradiso, con le strade da girone infernale», Pratolini si imbatte «in paesi che si ignorava, con sulle soglie trogloditi che ci offrivano acqua per puro istinto»: «una ragazza bella come una pastora di altre contrade, coi pantaloni rattoppati e il cappellone di paglia come una contadina del Texas, ha versato acqua nella bottiglietta di Cottur, servendosi di un ramaiolo. Aveva i capelli neri e una falce sotto l’ascella…».

Il Giro correva via, moltiplicando paesaggi e città, delineando i caratteri di un’Italia che dal punto di vista demografico-produttivo sembrava ancora quella dell’800. Certo, c’era la tragica eredità delle devastazioni seguite alla guerra: nel 1945 si contavano due milioni di case distrutte, 1.600.000 disoccupati, la produzione industriale ridotta a 1/3 di quella dell’anteguerra, quella agricola a 2/3. Ma i tratti complessivi erano quelli di sempre, di un Paese povero, contadino, con una base industriale molto ristretta, frammentato lungo molteplici linee di frattura, segnate dalla diversità strutturale tra Nord e Sud e che lasciavano intravedere «isole» di miseria anche all’interno delle zone più sviluppate.

Gli italiani erano poveri, ma non tutti allo stesso modo: alla formazione del reddito nazionale le regioni settentrionali concorrevano per il 60,5%, quelle centrali con il 17,8, quelle meridionali con il 14,4% e le isole per il 7,3%. Quanto all’analfabetismo, su una media nazionale pari al 12,9% della popolazione, gli analfabeti risultavano quasi scomparsi al Nord (con un minimo dell’1% in Trentino-Alto Adige, del 2,6% in Piemonte e del 2,7% in Lombardia), mentre al Sud sfioravano il 25% con punte massime in Calabria (31,8%) e in Basilicata (29,1%).

Queste immagini di staticità e arretratezza, questo intreccio tra isole di benessere e oceani di povertà, di culture, dialetti, identità separate erano la prova del fallimento del tentativo fascista di «nazionalizzare» gli italiani. E oggi, in chiave storiografica, rendono ancora più sorprendente il «miracolo» che si verificò tra il 1945 e il 1948: il 2 giugno 1946 si andò alle urne e, per la prima volta dopo vent’anni di dittatura, tutti furono in grado di esprimere una libera volontà.

Votò circa di il 90% dell’elettorato, in una febbre di partecipazione politica scattata come una molla troppo a lungo compressa dalle strutture di un regime totalitario; si scelse nella Repubblica la nuova forma dello Stato, azzerando il peso di una Monarchia troppo compromessa con il fascismo; ci si diede una Costituzione che fino a tempo recentissimi ha rappresentato un «patto di cittadinanza» efficace e carico di valori civili in cui potersi riconoscere; nel 1948 l’indice della produzione industriale ritornò quello dell’anteguerra, così come l’indice dell’andamento dei salari, certificando la piena ricostruzione, anche economica, dalle macerie della guerra.

Ci sono spiegazioni per questo «miracolo»? Sì, e la prima è lo «spirito della Resistenza». «Guardate le facce delle persone, i loro gesti la loro attività», scrisse allora Carlo Levi: «non hanno perso quello che avevano trovato nella Resistenza, e forse non lo perderanno per molto tempo. Sono vivi, attivi, tirano su muri diroccati, si sposano, fanno all’amore, cercano tutti i modi possibili, senza pigrizia e senza lamenti, di guadagnare la vita, di migliorarla e, con una incredibile rapidità, si sono dimenticati della guerra, della paura, del sangue, della servitù, del moralismo…».

Di questo spirito, la classe politica che allora fu chiamata alla guida del Paese seppe farsi interprete con straordinaria efficacia. Da De Gasperi a Togliatti, da Nenni a Einaudi era quella una classe politica non ancora segnata da granitiche appartenenze partitiche: alle elezioni del 1946 per la Costituente, i deputati che provenivano dalle libere professioni erano il 43,7%, quelli reclutati negli apparati di partito il 18,4%. Nel 1953 alle elezioni politiche queste quote erano scese al 33,8% per i provenienti dalle professioni e salite al 26,2% per quelli provenienti dai partiti. Il tempo dei «muri» della guerra fredda arrivò presto. Ma quel miracolo sarebbe rimasto.

Giovanni De Luna, storico           La Stampa 13.5.16

 

vedi: L'eterno fascismo italiano

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