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Festeggiata con grida di trionfo negli Stati Uniti, l’uccisione di Bin Laden crea nelle menti più sconcerto che chiarezza, più vertigine che sollievo. La storia che mette in scena somiglia ben poco a quel che effettivamente sta accadendo nel mondo: è parte di una guerra contro il terrore che gli occidentali non stanno vincendo in Afghanistan, e da cui vorrebbero uscire senza aver riparato nulla. È un’operazione che rivela la natura torbida, mortifera, dell’alleanza tra Usa e Pakistan: una potenza, quest’ultima, che usa il terrorismo contro Afghanistan e India, e che per anni (cinque, secondo Salman Rushdie) ha protetto Bin Laden. Che lo avrebbe custodito fino a permettergli di costruirsi, a Abbottabad, una casa-santuario a 800 metri dal primo centro d’addestramento militare pakistano. Ma l’operazione nasconde due verità ancora più profonde, legate l’una all’altra. La prima verità è evidente: Bin Laden era già morto politicamente, vanificato dai diversi tumulti arabi, e la cruenza della sua esecuzione ritrae un Medio Oriente e un Islam artificiosi, datati, che ancora ruotano attorno a Washington. Il terrorismo potrebbe aumentare, anche se l’America, che ha visto migliaia di connazionali morire nelle Torri Gemelle, gioisce comprensibilmente per la giustizia-vendetta. Come in M – Il mostro di Düsseldorf l’assassino è stato punito, ma l’ultima scena manca: quella in cui una mano potente agguanta il colpevole, lo sottrae alla giustizia sommaria, lo porta in tribunale. La parola che sigilla il filmdi Fritz Lang è: «In nome della legge». Leggi il resto di questo articolo »